UNA RIFORMA DA CORREGGERE
Con il decreto legge numero 18 del 2016 ogni banca di credito cooperativo è stata obbligata a sottomettersi a una capogruppo, una società per azioni.
Con il decreto legge numero 18 del 2016 ogni banca di credito cooperativo è stata obbligata a sottomettersi a una capogruppo, una società per azioni che potrà esercitare invasivi poteri di coordinamento e controllo su tutte le Bcc aderenti, pur essendo queste ultime le socie della capogruppo. È una strana riforma, contro cui si sono levate molte critiche, che impatterà significativamente sulle numerose piccole banche del nostro Paese, ma anche sui loro clienti tipici (famiglie e piccole imprese). Una riforma di cui stranamente si sente parlare poco.
Secondo gli intenti, serviva a rendere più resistente il movimento delle banche di credito cooperativo dal punto di vista patrimoniale, tenuto conto delle difficoltà giuridiche a immettere capitale di rischio in caso di crisi di tale tipologia di banche. In realtà, per irrobustire il sistema dal punto di vista patrimoniale, poteva bastare un meccanismo di protezione reciproca, un fondo di protezione istituzionale, da utilizzare nei casi di crisi, soluzione adottata in Germania. Avrebbe lasciato le banche più autonome e conservato il loro radicamento nei territori di riferimento. Le banche di credito cooperativo sono un importante volano di sviluppo: sono banche che raccolgono in un territorio e per legge sono obbligate a reimpiegare in quello stesso territorio i capitali raccolti, a favore di famiglie e piccole e medie imprese. Ma allora perché questa scelta «italiana»? Chi l’ha propugnata? Rafforza o indebolisce il credito cooperativo? Sono domande senza una risposta. O meglio, tutto ciò ha una spiegazione, ma non incrocia gli interessi dell’Italia e del credito cooperativo, che con questa riforma sarà e opererà in modo più simile a tutte le altre grandi banche. Il progetto iniziale era centrato su un gruppo unico nazionale e ha avuto quali alfieri anche autorevoli esponenti del sottosistema trentino, cui notoriamente sarebbero stati affidati (per qualche anno) ruoli di potere a livello nazionale. Posizioni di cui in effetti abbiamo sentito parlare per molti mesi sulla stampa locale, durante le trattative fra Cassa Centrale Banca e Iccrea. Il dissenso della base dei cooperatori e di numerose banche di credito cooperativo ha tuttavia indotto a rifiutare la nascita di un polo unico e ha portato alla nascita di tre poli: il polo nazionale Iccrea, il polo nazionale di Cassa Centrale Banca e il polo provinciale composto dalle Bcc altoatesine. Per il Trentino è meglio, ma non sono scongiurati i pericoli: la riforma produrrà i suoi danni, impattando sul modo di fare banca dei piccoli intermediari nel loro territorio, creando dei manager autoreferenziali nella capogruppo.
Una volta costituito formalmente, inoltre, il gruppo Cassa Centrale Banca (al contrario di quello altoatesino) passerà direttamente sotto la vigilanza Banca centrale europea (Bce). Diversamente da quanto accaduto in altri contesti (Germania), dove la vigilanza domestica è stata difesa a spada tratta, la controriforma tutta italiana sacrifica l’interesse nazionale che dovrebbe essere attento alla persistenza e allo sviluppo delle piccole banche, partner insostituibili del nostro sistema produttivo. Il passaggio sotto la vigilanza Bce da subito comporterà l’effettuazione di un’analisi sistematica di tutti gli attivi con conseguente probabile richiesta di incrementi patrimoniali. Ci sono preoccupazioni. Dell’opportunità potrebbe beneficiare qualche gruppo straniero, soprattutto per aumentare la propria quota nel mercato italiano. In effetti le Bcc costituiscono da sempre un agguerrito competitor per i grandi istituti, specie per quelli di emanazione estera. Sono intermediari vocati ai mercati locali, rivolti alle famiglie e alle Pmi, radicati nella parte economicamente più sviluppata d’Italia. Per i gruppi esteri, quale occasione migliore della possibilità di contribuire al rafforzamento patrimoniale richiesto dalla Bce a una società per azioni (la famigerata capogruppo) scalabile dall’esterno, per affacciarsi senza fatiche sui territori più ricchi d’Europa tra Veneto, Lombardia e Trentino?
L’Italia poteva scegliere diversamente. La Germania si tiene ben stretta la propria vigilanza su un numero significativo di banche, mantiene vitale il sistema delle piccole banche (ben 1500 contro le circa 370 Bcc italiane). Noi al contrario le unifichiamo è così le dobbiamo spedire dritte sotto lo sguardo severo della Bce. Quest’ultima ha costantemente mantenuto un atteggiamento duro nei confronti delle banche italiane, penalizzandole a vantaggio dei concorrenti francesi e tedeschi. Da sempre non vede i rischi finanziari legati a derivati e ai titoli illiquidi, enormemente presenti nei bilanci delle banche tedesche e francesi. Questi rischi sono stati la causa della crisi, stranamente però sempre sottovalutati dalla Bce.
Attenzione, tuttavia: le grandi banche francesi e tedesche, rifocillate di fondi europei sono pronte alla frontiera, in attesa dell’occasione propizia, come è già accaduto con diverse banche italiane già acquisite da banche francesi. Con la complicità silente o l’incompetenza della politica, a farne le spese potrebbero essere anche le numerose banche del territorio, da sempre vero (e forse dimenticato) volano di sviluppo nei distretti economici dei nostri territori. Ci sarebbe bisogno di correggere la riforma in più punti cruciali. Per esempio salvaguardando quanto più possibile l’autonomia delle singole banche dalla loro capogruppo, oppure prevedendo la non ricandidabilitá degli amministratori dopo un certo numero di mandati.