SE TRADURRE SIGNIFICA TRADIRE
L’apertura anche quest’anno di un corso di arabo di livello base organizzato dalla Comunità islamica del Trentino Alto Adige è una notizia positiva perché — come ha affermato l’organizzatrice Nibras Breigheche, figlia dell’imam Aboulkheir e lei stessa prima imam donna in Italia — «l’ignoranza dei testi è il veicolo migliore per chi li strumentalizza». Lo studio dell’arabo a mio parere deve partire, diversamente da quanto accade nel corso organizzato all’università, dalla lingua classica, la fusha. Ciò non solo e non tanto perché il Corano è stato rivelato in arabo e l’arabo per i musulmani è lingua ammantata di un alone di sacralità, ma soprattutto perché i «dialetti» o la cosiddetta «lingua viva» consentiranno di andare nei suq a comprare souvenir, ma non a leggere i testi dei filosofi o dei giuristi, specie se «medievali» ma anche contemporanei. Per una comprensione profonda del Corano, fondamentale per chiunque voglia davvero conoscere l’islam, la conoscenza di un minimo di arabo classico è indispensabile. Coloro i quali — moltissimi, giornalisti e accademici allo stesso modo — pretendono di discutere il contenuto del Corano senza conoscere una parola di arabo sono votati al fallimento se lo fanno con sincerità di intenzione, o si prefiggono di manipolare il testo se lo fanno con malizia. L’arabo coranico infatti è una lingua polisemica, in cui cioè il medesimo vocabolo può avere significati opposti o più di un significato; inoltre comprende termini di derivazione esogena come il siriaco (alcuni filologi hanno sostenuto che la parola «Corano» deriverebbe dal siriaco) e il persiano (per esempio il termine firdaws per indicare il Paradiso), o il cui significato sfuggiva agli stessi ascoltatori del Profeta. Un libro di esegesi coranica del IX secolo, scritto da Ibn Qutayba, s’intitola «Le parole strane del Corano». Analogo discorso vale naturalmente per la Bibbia: le versioni ebraica, greca e latina non sono affatto identiche, anche in passi importanti. Non è dunque possibile accostare questi testi venerandi con il fine di apprenderne i sensi interiori senza una minima conoscenza della lingua originale in cui sono stati scritti. Certo, le traduzioni sono indispensabili. Gli arabofoni sono forse un quarto appena dei musulmani e i non arabofoni devono comunque ricorrere a traduzioni. Ma se tradurre è tradire, come afferma un vecchio adagio, bisogna cercare di evitare il più possibile i tradimenti.