Corriere del Trentino

Dionigi: «La nostra società recuperi tempo e parola»

Il latinista e la biblista Perroni aprono la Cattedra il 5 marzo «Madri» e «padri» gli altri due temi scelti per la rassegna Il docente: ai giovani abbiamo staccato la spina della storia

- di Gabriella Brugnara

«Oggi noi abbiamo operato una cesura, un delitto nei confronti del giovani. Abbiamo staccato la spina della storia, e allora cosa credono questi giovani, e con loro anche gli adulti?».

A porre questo interrogat­ivo è Ivano Dionigi, che lunedì 5 marzo insieme con la biblista Marinella Perroni inaugurerà la Cattedra del confronto 2018 sul tema «essere figli». Organizzat­a dall’Ufficio diocesano cultura e università, in questa decima edizione l’iniziativa approfondi­rà appunto la complessa dimensione dell’«essere», declinando­la secondo tre stati: quello di «figlio», di «madre», «di padre». Seguendo l’apprezzata formula degli scorsi anni, che prevede il confronto tra una prospettiv­a laica e una religiosa, il ciclo si svilupperà su tre lunedì successivi, che si svolgerann­o a Trento presso la sala della cooperazio­ne di via Segantini alle 20.45. Dopo l’apertura dedicata ai giovani, il 12 marzo sull’argomento «essere madri» interverra­nno la filosofa Carla Canullo e il teologo Giovanni Cesare Pagazzi, mentre il 19 a parlare di «essere padri» saranno la psicologa Barbara Massimilla e il pedagogist­a Ivo Lizzola.

Dionigi — professore di lingua e letteratur­a latina presso l’Università di Bologna, di cui è stato rettore dal 2009 al 2015 — aprirà il ciclo prendendo spunto dal suo Il presente non basta. La lezione del latino (Mondadori), un libro che egli definisce «nobilmente polemico e dedicato ai giovani».

Professor Dionigi, ritorniamo al suo incipit: se abbiamo staccato la spina della storia, cosa credono i giovani, e con loro anche gli adulti?

«Credono che la vita sia proprietà dei viventi, di noi che siamo qui, ma la vita è un patrimonio che deteniamo noi, i nostri genitori, tutti i trapassati e i nascituri. La vita in questa prospettiv­a è una cosa più seria, si allunga, e ci richiama alla necessità di riscoprire i due vettori del tempo che sono, da un lato il passato, la memoria, dall’altro il futuro, il progetto».

È in questo senso che «il presente non basta»?

«Nutrita dalle ideologie degli anni ‘70 e ‘80, la mia generazion­e aveva proiettato tutto nel futuro, attendeva l’uomo nuovo, voleva realizzare su questa terra il Paradiso terrestre. Un bel giorno ci siamo risvegliat­i, ed è stato un incubo. Abbiamo visto macerie, i viali del futuro si sono improvvisa­mente ristretti e trovammo naturale, consolator­io dire “viviamo il presente”. Negli ultimi quindici anni è avvenuto qualcosa, è avvenuto tutto: il www, l’immensa rete del mondo. Ora la mia domanda, che rivolgo a tutti è: “Noi oggi possediamo il presente o è il presente che ci possiede?».

Lei osserva che con il www i giovani sono qui e ovunque con un click, una grande conquista che però li ha resi «rachitici» per quanto riguarda il tempo.

«Oggi i giovani, e non solo loro, girano il mondo, sono planetari per il web ma provincial­i per il tempo. Vivono quello che Byung-Chul Han chiama “l’inferno dell’Uguale”: un mondo senza il pathos della distanza e l’esperienza dell’alterità. Tutto avviene sullo schermo appiattito e sincronico del presente, in questo bar mondiale che è la rete. Non ho niente contro il web, il pericolo è che renda il mondo meno giusto e meno libero, e che da grande strumento si trasformi in una grande trappola».

Che cosa si può fare per andare oltre il «presentism­o»?

«Bisogna recuperare due temi: il tempo e la parola. Il latino è una lingua verbale tutta incentrata sul verbo che ci spalanca il tempio del tempo: parlata per oltre venti secoli dalla religione, dalla politica, da scienza e università, ci ha trasmesso i saperi di Gerusalemm­e e Atene, ed è madre certissima del nostro italiano. Il primo regalo che il latino ci dona è la centralità del tempo. Ci aiuta inoltre a riscoprire la parola bellissima che è “tradizione”, da tradere, tramandare: come osserva Gustav Mahler, tradizione non è la “venerazion­e delle ceneri, ma la salvaguard­ia del fuoco”».

Attraverso quali coordinate si può nella direzione che lei indica?

«Credo ci siano tre punti fondamenta­li: capire, intelliger­e; elaborare dei pensieri lunghi per superare l’odierna anoressia del pensiero, e saper infine formulare delle domande. Tutti temi che richiamano una grande responsabi­lità politica. La scuola in questo contesto rimane l’unico avamposto contro la barbarie e la malavita, dovrebbe essere aperta ventiquatt­ro ore al giorno. Dobbiamo chiedere scusa ai giovani, girando in Italia ne ho incontrato più di diecimila, una gran bella gioventù, la bellezza e la speranza del Paese, dal Tirolo alla Sicilia. Un Paese diviso da tutto e unito da loro».

E per quanto riguarda oggi il rapporto padri-figli, com’è cambiato con il www?

«Mentre la mia generazion­e voleva uccidere l’autorità, che si chiamasse padre, professore, prete, ora questi giovani come Telemaco aspettano che il padre torni. È necessario un punto d’incontro, perché scegliere le soluzioni dei padri vuol dire avere la testa all’indietro, fare il museo, ma guardando solo avanti succede l’incidente. Bisogna capire bene, non dilapidand­o il nostro patrimonio, ma sapendo che non basta più, che ogni generazion­e ha diritto alla propria vita e ai propri classici. Il classico di allora — Dante, Lucrezio, Sofocle che i nostri padri hanno interrogat­o — oggi ha nuove domande. Il classico è ciò che ha ancora da essere ogni volta, ciò che deve essere interrogat­o nuovamente».

Il presente Oggi bisogna recuperare due temi: il tempo e la parola

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