La filosofa del criptorazzismo
Donatella di Cesare è autrice di Stranieri residenti Alla biblioteca di Trento in dialogo con Ugo Morelli
«O viandante, riferisci che qui noi giacciamo per aver obbedito alle loro leggi». Dimentichiamo per un momento il riferimento del celebre epitaffio di Simonide ai trecento guerrieri spartani caduti alle Termopili nel 480 a.C. e il suo nobile significato.
Immaginiamo invece di poterlo incidere su una delle navi cariche di migranti affondate nel mar Mediterraneo, o sul vagone di un treno merci al Brennero o sulla parete di un campo di internamento in Libia.
Il nuovo significato richiamerebbe la coscienza di un intero continente alla mutua responsabilità di una strage che in silenzio, lontano, dove nessuno può sentirla, si perpetua da tempo. «Nei libri di storia, che non asseconderanno la narrazione egemonica, si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti, e di quelle vite, porterà il peso e la responsabilità».
Parole dure quelle contenute nell’introduzione di «Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione» (Bollati Boringhieri), l’ultimo libro di Donatella Di Cesare, filosofa e docente di Filosofia teoretica presso l’università Sapienza di Roma e di Ermeneutica filosofica presso la Scuola normale superiore di Pisa, nonché collaboratrice del «Corriere della Sera».
Nel testo, si legge nella presentazione, Di Cesare «riflette sul significato ultimo del migrare. Abitare e migrare non si contrappongono, come vorrebbe il senso comune. In ogni migrante si deve invece riconoscere la figura dello “straniero residente”, il vero protagonista del libro [...] Nella nuova età dei muri, in un mondo costellato da campi di internamento per stranieri, che l’Europa pretende di tenere alle sue porte, Di Cesare sostiene una politica dell’ospitalità, fondata sulla separazione dal luogo in cui si risiede, e propone un nuovo senso del coabitare».
L’autrice presenterà il libro lunedì 5 febbraio alle 17 presso la Sala degli affreschi della biblioteca comunale di Trento, in dialogo con Ugo Morelli.
Professoressa Di Cesare, nel suo libro lei ha esposto una prima filosofia della migrazione: qual era il suo intento?
«Il mio è un libro filosofico-politico, nato dalla forte e crescente insoddisfazione nei confronti del dibattito pubblico sul tema, che non coglie mai il nodo centrale, ossia che agli occhi dello Stato il migrante è un’anomalia intollerabile, che noi cittadini in un’ottica statocentrica e sovranista ci sentiamo legittimati a respingere, arrogandoci un diritto che invece non esiste: nessun cittadino può rivendicare il possesso, la proprietà del territorio in cui risiede, nessuno può impedire a qualcuno di migrare, poiché migrare è un atto esistenziale e politico di cui riconoscere il diritto».
Nella prima parte del libro lei spiega come i filosofi siano stati spesso interpellati dai governi sulla questione immigrazione, con quali effetti?
«I filosofi danno fastidio, anche perché sono le domande che ci pongono a essere sbagliate in partenza, ad esempio come distinguere i migranti economici dai rifugiati o come gestire i flussi, questioni già contestabili poiché poste in un’ottica stato-centrica. L’integrazione stessa è un esercizio di potere».
Come si è sviluppato il dibattito filosofico sulle migrazioni?
«Esclusi alcuni scritti di Hannah Arendt, tale dibattito è piuttosto recente e si è sempre polarizzato su due posizioni: la difesa dei confini chiusi e la difesa dei confini aperti. Io, personalmente, non mi riconosco appieno nemmeno in quest’ultima: la trovo alquanto astratta, così come trovo riduttiva la tesi di chi sostiene che spostarsi faccia parte della natura umana e della sua evoluzione».
Qual è la sua posizione dunque?
«Una posizione anti-sovranista, i cui punti cardine sono la difesa dello ius migrandi, l’accoglienza e la coabitazione: non abbiamo alcun diritto di decidere con chi abitare, non siamo proprietari del luogo in cui viviamo. Occorre andare al di là della cittadinanza, siamo tutti stranieri residenti, l’identità non è legata a un luogo; coabitare nell’era della globalizzazione è un compito di tutti, che investe politica ed etica. L’idea di poter scegliere con chi abitare fa pensare alle politiche razziali dei nazisti, che non volevano più coabitare con gli ebrei».
Nel libro lei difatti parla di criptorazzismo e nuovo hitlerismo, fenomeni inquietanti pensando anche alla Giornata della Memoria.
«Il nuovo hitlerismo nasce proprio dal decidere con chi si vuole abitare, il criptorazzismo invece è nascosto, teme la censura ma è più virulento che mai; sono entrambi problemi che stiamo sottovalutando. Per la Giornata della Memoria le cerimonie non sono sufficienti, servirebbe maggior approfondimento, più riflessione, anche sul nostro presente: siamo un mondo all’ombra di Auschwitz, i campi di internamento dei migranti in Libia fanno parte dello stesso universo concentrazionario e invece di chiedersi come sia possibile un’atrocità del genere e intervenire i cittadini e i governi guardano dall’altra parte, forse si sentono persino sollevati. Ne risponderanno di fronte alla storia».
La prefazione Nei libri di storia si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre e persecuzioni Un nuovo hitlerismo Siamo un mondo all’ombra di Auschwitz, i campi di internamento dei migranti in Libia fanno parte dello stesso universo concentrazionario