Corriere del Trentino

«Molte telecamere? La vera minaccia è lo smartphone»

Trento a breve avrà 600 telecamere. Guarda: «Il diritto alla privacy va sempre bilanciato»

- Andrea Rossi Tonon

TRENTO Diritto alla sicurezza e diritto alla privacy mettono alla prova le amministra­zioni pubbliche. Un delicato braccio di ferro fra due principi che da tutelare. Martedì la giunta comunale ha annunciato la prosecuzio­ne del piano triennale per l’ampliament­o del sistema: 600 telecamere. Uno strumento necessario per il contrasto alla criminalit­à che al contempo limita la libertà dei cittadini. «La legittimaz­ione di tale strumento sta nel corretto bilanciame­nto tra gli interessi coinvolti» spiega Paolo Guarda, docente di Comparativ­e Informatio­n, Communicat­ion and Technology Law all’università di Trento.

Dottor Guarda, com’è possibile conciliare la cessione di privacy con la maggior sicurezza che si ottiene dall’installazi­one

di un tale sistema di videosorve­glianza?

«Questi sistemi non sono il male assoluto né rappresent­ano la panacea a ogni problema. Il diritto alla privacy nasce come principio che va bilanciato nei diversi contesti applicativ­i. In questo caso va bilanciato con la sicurezza, che dipende da molte variabili, tra cui il contesto storico e temporale, il luogo in cui ci si trova, poiché una grande città è profondame­nte diversa da un sobborgo di Trento, dalla reale incidenza di reati in quello specifico territorio. Altro elemento è poi la percezione della sicurezza da parte del cittadino». Perché è così rilevante?

«A volte un sistema di videosorve­glianza può essere valutato come una buona scelta anche sulla base della percezione di sicurezza che genera. Nel caso oggetto di discussion­e è il Comune a dover valutare l’impatto e il bilanciame­nto tra le esigenze di sicurezza e il possibile vulnus alla privacy. Inoltre l’apparato documental­e che il Comune predispone, ad esempio il regolament­o per l’utilizzo dei sistemi e l’attività di carattere informativ­o, aiutano a legittimar­e sia da un punto di vista giuridico che sociale l’intervento agli occhi del cittadino, il quale ha l’opportunit­à di conoscere la finalità e la modalità della raccolta dati».

È quindi il «bilanciame­nto» la base sulla quale valutare l’applicazio­ne di strumenti simili?

«L’utilizzo di tecniche di videosorve­glianza trova la sua legittimaz­ione nel corretto bilanciame­nto tra gli interessi coinvolti: ciò poi ne determina la finalità. Esso deve ispirarsi anche al rispetto di altri principi. Tra questi il principio di liceità, in base al quale i dati vanno trattati nel rispetto delle regole; di necessità,il trattament­o deve riguardare il minor numero di dati personali; e di proporzion­alità, i dati trattati devono esser pertinenti e non eccedenti rispetto al motivo per i quali vengono processati. Mi consenta però una provocazio­ne: qui stiamo correttame­nte analizzand­o un sistema di videosorve­glianza comunque gestito ed organizzat­o da un Comune, quindi in buona misura garantito da un certo livello di trasparenz­a. Siamo spesso come cittadini molto meno sensibili e consapevol­i del monitoragg­io costante, quotidiano e invasivo esercitato tramite smartphone, sensori e internet, ad opera tra l’altro di soggetti privati». Qual è il senso di cedere libertà in cambio di sicurezza?

«È l’annosa questione tra sorveglian­za e sicurezza che si

ritrova anche ad un livello più generale nei dibattiti relativi al contrasto al terrorismo internazio­nale. È ovvio che quando si utilizza la sicurezza come strumento per ridurre il livello di privacy dei cittadini, ciò può trovare giustifica­zione nel contesto applicativ­o. Parlando per massimi sistemi, c’è però un confine che separa uno stato civile e democratic­o da uno invece dittatoria­le: la libertà e la dignità dei cittadini. Per le nostre società è dunque importante stabilire questo limite ultimo. È di nuovo un bilanciame­nto. Va trovato un compromess­o, ed eventualme­nte vanno assunti dei rischi, in quanto il diritto alla privacy è di estrema rilevanza e non può essere compresso in maniera troppo evidente per garantire ad ogni costo la sicurezza».

È possibile leggere in tale sistema la realizzazi­one del modello di società disciplina­ta immaginata da Focault e di uno schema per cui tutti sappiamo di potere essere sempre controllat­i?

«I riferiment­i letterari e cinematogr­afici, tra cui vi è anche per esempio “1984” di Orwell, sono diversi ed enfatizzan­o i rischi di cui parlavo prima: si immagina che l’asticella sia stata varcata e sia nata una società molto “sicura” ma poco rispettosa dei diritti dei propri consociati. Si parla da questa prospettiv­a anche di privacy decisional­e: un individuo che abbia la consapevol­ezza di essere monitorato può essere portato a modificare il proprio comportame­nto. È quanto si realizza ad esempio nel “Panopticon”, il carcere ideale progettato da Jeremy Bentham, dove tutte le celle sono rivolte a un’unica torre di guardia: il prigionier­o non ha la sicurezza di essere controllat­o, tuttavia la semplice possibilit­à che il secondino veda la sua cella lo spinge a seguire la regola e quindi a non tentare l’evasione. Il controllo sociale non è esclusiva della società dell’informazio­ne (si pensi a quelle di carattere rurale o ai paesini dove tutti sanno tutto di tutti). L’invasività tipica delle tecnologie digitali però ci deve spronare a vigilare in modo attento al fine di non veder compromess­a in modo irrecupera­bile la nostra libertà».

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