«Molte telecamere? La vera minaccia è lo smartphone»
Trento a breve avrà 600 telecamere. Guarda: «Il diritto alla privacy va sempre bilanciato»
TRENTO Diritto alla sicurezza e diritto alla privacy mettono alla prova le amministrazioni pubbliche. Un delicato braccio di ferro fra due principi che da tutelare. Martedì la giunta comunale ha annunciato la prosecuzione del piano triennale per l’ampliamento del sistema: 600 telecamere. Uno strumento necessario per il contrasto alla criminalità che al contempo limita la libertà dei cittadini. «La legittimazione di tale strumento sta nel corretto bilanciamento tra gli interessi coinvolti» spiega Paolo Guarda, docente di Comparative Information, Communication and Technology Law all’università di Trento.
Dottor Guarda, com’è possibile conciliare la cessione di privacy con la maggior sicurezza che si ottiene dall’installazione
di un tale sistema di videosorveglianza?
«Questi sistemi non sono il male assoluto né rappresentano la panacea a ogni problema. Il diritto alla privacy nasce come principio che va bilanciato nei diversi contesti applicativi. In questo caso va bilanciato con la sicurezza, che dipende da molte variabili, tra cui il contesto storico e temporale, il luogo in cui ci si trova, poiché una grande città è profondamente diversa da un sobborgo di Trento, dalla reale incidenza di reati in quello specifico territorio. Altro elemento è poi la percezione della sicurezza da parte del cittadino». Perché è così rilevante?
«A volte un sistema di videosorveglianza può essere valutato come una buona scelta anche sulla base della percezione di sicurezza che genera. Nel caso oggetto di discussione è il Comune a dover valutare l’impatto e il bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e il possibile vulnus alla privacy. Inoltre l’apparato documentale che il Comune predispone, ad esempio il regolamento per l’utilizzo dei sistemi e l’attività di carattere informativo, aiutano a legittimare sia da un punto di vista giuridico che sociale l’intervento agli occhi del cittadino, il quale ha l’opportunità di conoscere la finalità e la modalità della raccolta dati».
È quindi il «bilanciamento» la base sulla quale valutare l’applicazione di strumenti simili?
«L’utilizzo di tecniche di videosorveglianza trova la sua legittimazione nel corretto bilanciamento tra gli interessi coinvolti: ciò poi ne determina la finalità. Esso deve ispirarsi anche al rispetto di altri principi. Tra questi il principio di liceità, in base al quale i dati vanno trattati nel rispetto delle regole; di necessità,il trattamento deve riguardare il minor numero di dati personali; e di proporzionalità, i dati trattati devono esser pertinenti e non eccedenti rispetto al motivo per i quali vengono processati. Mi consenta però una provocazione: qui stiamo correttamente analizzando un sistema di videosorveglianza comunque gestito ed organizzato da un Comune, quindi in buona misura garantito da un certo livello di trasparenza. Siamo spesso come cittadini molto meno sensibili e consapevoli del monitoraggio costante, quotidiano e invasivo esercitato tramite smartphone, sensori e internet, ad opera tra l’altro di soggetti privati». Qual è il senso di cedere libertà in cambio di sicurezza?
«È l’annosa questione tra sorveglianza e sicurezza che si
ritrova anche ad un livello più generale nei dibattiti relativi al contrasto al terrorismo internazionale. È ovvio che quando si utilizza la sicurezza come strumento per ridurre il livello di privacy dei cittadini, ciò può trovare giustificazione nel contesto applicativo. Parlando per massimi sistemi, c’è però un confine che separa uno stato civile e democratico da uno invece dittatoriale: la libertà e la dignità dei cittadini. Per le nostre società è dunque importante stabilire questo limite ultimo. È di nuovo un bilanciamento. Va trovato un compromesso, ed eventualmente vanno assunti dei rischi, in quanto il diritto alla privacy è di estrema rilevanza e non può essere compresso in maniera troppo evidente per garantire ad ogni costo la sicurezza».
È possibile leggere in tale sistema la realizzazione del modello di società disciplinata immaginata da Focault e di uno schema per cui tutti sappiamo di potere essere sempre controllati?
«I riferimenti letterari e cinematografici, tra cui vi è anche per esempio “1984” di Orwell, sono diversi ed enfatizzano i rischi di cui parlavo prima: si immagina che l’asticella sia stata varcata e sia nata una società molto “sicura” ma poco rispettosa dei diritti dei propri consociati. Si parla da questa prospettiva anche di privacy decisionale: un individuo che abbia la consapevolezza di essere monitorato può essere portato a modificare il proprio comportamento. È quanto si realizza ad esempio nel “Panopticon”, il carcere ideale progettato da Jeremy Bentham, dove tutte le celle sono rivolte a un’unica torre di guardia: il prigioniero non ha la sicurezza di essere controllato, tuttavia la semplice possibilità che il secondino veda la sua cella lo spinge a seguire la regola e quindi a non tentare l’evasione. Il controllo sociale non è esclusiva della società dell’informazione (si pensi a quelle di carattere rurale o ai paesini dove tutti sanno tutto di tutti). L’invasività tipica delle tecnologie digitali però ci deve spronare a vigilare in modo attento al fine di non veder compromessa in modo irrecuperabile la nostra libertà».