DONNE IN CAMPO MA NON BASTA
Alle prossime elezioni ci sarà un numero tutto sommato abbastanza consistente di candidature di genere femminile. Si tratta di un risultato, salutato con favore da molti, probabilmente dovuto non solo al diffondersi di una certa sensibilità al tema, ma anche (e forse soprattutto) a una legge elettorale che prevede come ciascuno dei due sessi non possa rappresentare più del 60% dei candidati. Un primo passo, comunque, è stato fatto. Basta così? Va tutto bene sotto il profilo della rappresentanza femminile? Mi pare di no.
In effetti se, da una parte, il numero delle candidate è cresciuto rispetto al passato, occorrerà vedere, dall’altra, anche quante donne saranno elette. Le quote rosa, infatti, lavorano sul versante dell’input e non dell’output; permettono, cioè, di avere un certo novero di candidate, ma non necessariamente di vederle tutte elette. Il numero dipende da quanto seriamente le forze politiche prendono le candidature femminili e dalla volontà degli elettori. Su questi due fattori nessuna legge elettorale (e nessuna legge, in generale) può incidere.
L’attenzione alla questione di genere che si è notata nella predisposizione delle liste è salutare, ma lascia un po’ di amaro in bocca per il senso di strumentalizzazione da parte dei partiti (alcuni più di altri, ovviamente). Non solo. Paradossalmente, la questione di genere non sarà risolta finché resteranno le quote rosa. Quote che devono essere inevitabilmente «emergenziali», aiutando a riequilibrare una politica solo maschile, non possono trasformarsi in elemento di costante «discriminazione» a favore delle donne. Anche perché le stesse quote rosa rischiano di diventare un boomerang: non un fattore capace di incentivare la formazione di una nuova classe politica, bensì elemento che perpetua meccanismi cooptativi (passando dal coinvolgimento dei «soliti» al coinvolgimento delle «solite»).
Stando a quanto riporta il database dell’Inter-Parliamentary Union sulla presenza di donne nei parlamenti nazionali, quello italiano uscente si caratterizzava per una presenza femminile attorno al 30%, grosso modo cinque punti percentuali in meno rispetto al Portogallo, sette alla Danimarca, otto alla Francia, dodici alla Finlandia, quattordici alla Svezia. Se riusciremo a colmare simili divari e, quindi, se un primo passo verso un riequilibrio di elette (e non solo di candidate) sarà stato fatto, lo sapremo solo il 5 marzo.