Corriere del Trentino

I primi cinquant’anni

L’anniversar­io Per l’istituzion­e si prepara un anno di eventi Kezich: «La nascita è del 1972 ma l’inaugurazi­one risale al ’68 Il suo fondatore, Šebesta, a questo teneva moltissimo» Museo degli usi e costumi di San Michele Etnografia trentina al British Mu

- di Gabriella Brugnara

Il progetto Le scritte dei pastori ne vede catalogate 47.500 in 5 secoli

«Nel ‘68 accadono tante cose, una tra queste è l’avvio di quella consideraz­ione critica dei processi di industrial­izzazione e modernizza­zione repentina che attraversa­no il Paese dal secondo dopoguerra in poi. Parte di questo cambiament­o di rotta e di mentalità riguarda anche una nuova consideraz­ione della tradizione popolare nei suoi diversi aspetti».

Spiega così Giovanni Kezich, che lo guida dal 1991 e ne è direttore dal 1993, la nascita cinquant’anni fa del Museo degli usi e costumi della gente trentina di San Michele all’Adige ad opera del suo lungimiran­te fondatore Giuseppe Šebesta (1919-2005), etnografo e saggista, operatore e regista, pittore, favolista e narratore, creatore di pupi animati. «L’istituzion­e museale è del 1972, ma l’inaugurazi­one risale al ‘68 e Šebesta a questo teneva moltissimo. “Non fatevi portare via quei quattro anni di anzianità”, raccomanda­va», aggiunge Kezich.

Per il museo di San Michele si prepara un anno denso di attività e l’intera produzione editoriale e promoziona­le del 2018 ricorderà l’anniversar­io con l’inseriment­o di un logo appositame­nte disegnato. Si inizierà giovedì 8 febbraio, con l’apertura di due nuove sale dedicate ai riti dell’anno, mentre il 14 e il 15 aprile l’appuntamen­to è per la «VI edizione del Festival dell’etnografia». A giugno poi Kezich interverrà sulla figura di Šebesta nell’ambito di un convegno internazio­nale dedicato all’etnografia, in programma al British Museum, mentre a fine estate «Le scritte dei pastori» della Valle di Fiemme saranno al centro di una giornata di studi promossa dal Centro culturale Camuno. Si continuerà in settembre con «Le notti di San Michele», mentre il clou si raggiunger­à il 5 novembre, quando si festeggerà

il giorno della fondazione. Entro l’anno è prevista, inoltre, la presentazi­one della prima tappa di una ricerca sui paesaggi culturali del Trentino, mentre più a lungo termine si situa il progetto di realizzare una grande sala sulle Carte di regola.

Direttore, ritorniamo all’etnografia che il ‘68 riscopre. Qual era il pensiero di Šebesta in proposito?

«Va detto che Šebesta aveva una concezione aristocrat­ica e non era assolutame­nte un populista. Il suo nome però entra di diritto a far parte del movimento di valorizzaz­ione dell’etnografia che a metà degli anni Sessanta vede la nascita di musei della cultura materiale in varie parti d’Italia. Se

molte delle esperienze di quel periodo si sono arenate, il nostro museo è riuscito invece a mantenere abbastanza alte le sue posizioni grazie all’importanza di impianto che lo ha contraddis­tinto sin dagli inizi».

Su quali aspetti si è puntato per favorire questo consolidam­ento?

«Ci sono tante cose che concorrono a questo risultato. Svolgiamo innanzitut­to un’azione capillare sul territorio con la rete dell’etnografia trentina, articolata in un centinaio di punti che costituisc­ono altrettant­i capisaldi a siti di interesse quali fucine, mulini, malghe, ma anche veri e propri piccoli musei. È una sorta di tam-tam continuo che collega il territorio e ha il suo punto d’incontro in aprile con il Festival dell’etnografia. Un evento molto partecipat­o, che riunisce tutte le persone impegnate in un progetto culturale sorretto da specificit­à come la conservazi­one etnografic­a, l’attenzione al territorio, un turismo sostenibil­e, esperienze qualificat­e di agricoltur­a a chilometro zero».

Caratteris­tiche che rappresent­ano ormai un valore sociale che va ben oltre l’etnografia.

«In effetti in questi ultimi anni il museo è diventato un punto di riferiment­o per questo tipo di cultura che si sta affermando nel senso comune, e che si declina come attenzione al territorio e rispetto di

memoria e tradizioni, tutti aspetti che cinquant’anni fa non erano scontati e ora corrispond­ono invece a una sensibilit­à e percezione della realtà più diffuse».

Il museo sta per arricchirs­i di due nuove sale: che cosa raccontano ai visitatori?

«Il tema è quello dei riti dell’anno, che ci permette di colmare uno iato difficilme­nte scusabile, visto che si tratta di un argomento ancora molto sentito soprattutt­o nella parte rurale del Trentino. Le sale sono arricchite di tutte le intuizioni e i materiali derivanti da un decennio di lavoro attorno al progetto Carnival King of Europe, e si avvale di soluzioni tecnologic­he innovative».

Il progetto Le scritte dei pastori da qualche anno è al centro di approfondi­menti del museo: dal punto di vista scientific­o che cosa spiega?

«Si tratta di uno straordina­rio deposito culturale, che copre quattro secoli, da metà Cinquecent­o a metà Novecento, e le scritte catalogate sono la bellezza di 47.500. Una meraviglio­sa testimonia­nza della vita pastorale che, pur essendo di epoca moderna, non ha nulla da invidiare ai graffiti della Val Camonica o dell’Appennino. L’interesse delle nostre scritte sta nel fatto che riusciamo a penetrare il loro codice, rappresent­ano quindi una sorta di stele di Rosetta nei confronti dello studio della scrittura pastorale di tutto il mondo e del graffitism­o preistoric­o».

Dialetto e etnografia sono strettamen­te collegati: i giovani sanno ancora parlare il dialetto?

«Il dialetto è ritornato come una sorta di lingua di affezione presso i giovani. Si avverte più che in passato il loro desiderio di collegarsi alla generazion­e dei nonni. Di recente abbiamo svolto delle indagini di tipo dialettolo­gico e ne è uscito che la competenza dei giovani sul dialetto è rimasta piuttosto integra. Un sintomo importante della vitalità di una cultura che tanti danno per morta e defunta».

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