«Unione Europea, sistema a integrazione differenziata»
Il saggio di Brunazzo in libreria da lunedì. Il politologo analizza le prospettive legate al futuro
Azione e reazione. È un rapporto di causa effetto quello che lega il percorso di integrazione differenziata dell’Unione Europea ai cambiamenti che hanno interessato l’unione stessa negli anni. Da Maastricht ad Amsterdam e ancora a Lisbona, il modello di differenziazione ha subìto una forte accelerata. Segue questa relazione causale e la linea cronologica scandita dalla modifica dei trattati fondamentali Marco Brunazzo, docente di politica e organizzazioni internazionali a Trento, col suo saggio La differenziazione integrata. L’Unione Europea e le sue prospettive future (Mondadori università, 16.50 euro) in libreria da lunedì. Sottolinea i passaggi storici cruciali nel percorso che ha portato l’Ue a diventare «un sistema a integrazione differenziata» e sostiene che «con ogni probabilità, lo diventerà sempre di più anche in futuro».
Il metodo della differenziazione, per assunto politico di molti, avrebbe garantito una stabilità tale da permettere la costruzione di quelli che, nelle idee di Spinelli e dei federalisti europei, avrebbero dovuto diventare gli Stati uniti d’Europa; per altri, invece, ha segnato una svolta negativa, rendendo la complessa macchina europea «poco intellegibile» e configurando il rischio di fratture così significative da dar vita a «più Europe». La «mancanza di un punto di approdo finale dell’integrazione europea», l’allargamento che ha portato i Paesi dell’Ue da 6 a 28 e il graduale approfondimento delle materie di competenza delle istituzioni europee sono stati cambiamenti sostanziali, che hanno trasformato l’Unione e accresciuto la sua complessità. L’eterogeneità delle componenti e l’acuta crisi finanziaria hanno reso via via necessaria un’integrazione differenziata.
«Pioneristico» fu Schengen; Lisbona la svolta. Oggi, l’integrazione flessibile riguarda «i partecipanti, gli obiettivi e la velocità» delle componenti europee. Tuttavia, mancano «definizioni condivise di concetti usati per spiegare le forme che l’Ue può assumere». Il trattato di Lisbona, nel 2009, ha sì «allargato il ventaglio di strumenti utili per promuovere un’integrazione maggiormente differenziata»; lasciando però la discrezionalità di dar vita a gruppi di cooperazione rafforzata, alcuni paesi hanno scelto di approfondire le materie di competenza europea ed altri a defezionare su più fronti. Per esempio «le condizioni politiche o economiche non permettevano a tutti i paesi di essere parte dello stesso unico progetto. Da questo punto di vista, la differenziazione sarebbe stata temporanea, permettendo ai Paesi esclusi di riunirsi ai paesi più integrati appena fossero cambiate quelle condizioni». Strategia che ha fallito finora, secondo Brunazzo. Sarebbe stata proprio «l’assenza di un preciso modello di integrazione differenziata da seguire» a rendere il processo scompaginato e a mettere Bruxelles al centro di numerose polemiche.
Se infatti l’integrazione europea nasce come «processo unico per tutti i paesi membri», nella realtà dei fatti non lo è più. «Il dilemma è proprio quello che contrappone la differenziazione all’unità», chiarisce il docente mostrando come la differenziazione crescente generi tensioni fra i Paesi membri, ri- schiando di minare l’integrazione nel suo complesso. E in aggiunta «la prevalenza delle retroguardie sulle avanguardie ha portato a una disarticolazione delle istituzioni intergovernative». Come vorrebbe dimostrare «la recessione della Gran Bretagna dall’Ue», che ha sottolineato «quanto profonde siano le differenze tra i Paesi circa il significato e le prospettive dell’integrazione europea».
Sull’esito a cui porterà a posteriori l’integrazione differenziata, Marco Brunazzo non esprime il proprio giudizio: «Se porterà l’Ue verso una maggiore integrazione o alla disintegrazione, questa è una storia ancora tutta da scrivere».