LA DENUNCIA DEGLI ANONIMI
La normativa sul whistleblowing, tanto a livello nazionale quanto a livello regionale, come hanno testimoniato le cronache degli ultimi mesi, non ha avuto vita facile. Non si è trattato solo di un problema di trasposizione nel nostro ordinamento di un istituto presente con successo in altri, ma di un fenomeno culturale, che fa sì che un termine di difficile traduzione
(whistleblower) sia comunemente esplicitato in «spione», quando sono possibili altre traduzioni meno negative. Un soggetto segnala un altro soggetto per avere messo in atto comportamenti di corruzione, prevaricazione, mobbing, molestie sessuali sul luogo di lavoro. Il primo è lo spione, del secondo ci si dimentica.
Curiosamente, non si distingue tra chi — ed è inutile nascondere che possa accadere — denuncia qualcuno falsamente, per propri scopi personali, e chi invece aiuta l’ amministrazione a liberarsi di funzionarie dipendenti che, compiendo reati, provocano un danno a colleghi, ente e collettività. Sono entrambi «spioni»: chi trama e diffama e chi contribuisce ad assicurare un più alto livello di legalità ed etica pubblica, senza voltarsi comodamente dall’altra parte.
In tal senso, anche il problema dell’effettivo anonimato del whistleblower, oggetto di un acceso dibattito a livello locale, può essere letto in modo diverso. Non si tratta di favorire delazioni false, opportunistiche e irresponsabili, se le denunce anonime sono prese in considerazione in quanto circostanziate e corroborate da elementi significativi. Si tratta invece di rendere lo strumento più efficace. Nel momento in cui un soggetto in posizione gerarchicamente ed economicamente debole deve decidere se segnalare illegalità, è più probabile che lo faccia in quanto sia certo che la sua identità non possa essere rivelata (magari proprio a chi sta denunciando), per non subire ritorsioni. E ciò aumenta l’effetto deterrente, che si basa solo parzialmente sulle denunce. Un sistema perfetto, insomma? No. Ma l’alternativa è rendere più difficile l’azione di contrasto ad abusi (e reati) quali corruzione, clientelismo e altri, che non solo abbassano la qualità etica dell’azione pubblica, ma fanno lievitare sensibilmente costi economici e sociali a danno dei cittadini. Le statistiche e le classifiche che vedono l’Italia in posizione (tristemente) alta, in simili ambiti, dovrebbero far riflettere su chi, davvero, merita lo stigma sociale.