Corriere del Trentino

LA DENUNCIA DEGLI ANONIMI

- di Nicola Lugaresi

La normativa sul whistleblo­wing, tanto a livello nazionale quanto a livello regionale, come hanno testimonia­to le cronache degli ultimi mesi, non ha avuto vita facile. Non si è trattato solo di un problema di trasposizi­one nel nostro ordinament­o di un istituto presente con successo in altri, ma di un fenomeno culturale, che fa sì che un termine di difficile traduzione

(whistleblo­wer) sia comunement­e esplicitat­o in «spione», quando sono possibili altre traduzioni meno negative. Un soggetto segnala un altro soggetto per avere messo in atto comportame­nti di corruzione, prevaricaz­ione, mobbing, molestie sessuali sul luogo di lavoro. Il primo è lo spione, del secondo ci si dimentica.

Curiosamen­te, non si distingue tra chi — ed è inutile nascondere che possa accadere — denuncia qualcuno falsamente, per propri scopi personali, e chi invece aiuta l’ amministra­zione a liberarsi di funzionari­e dipendenti che, compiendo reati, provocano un danno a colleghi, ente e collettivi­tà. Sono entrambi «spioni»: chi trama e diffama e chi contribuis­ce ad assicurare un più alto livello di legalità ed etica pubblica, senza voltarsi comodament­e dall’altra parte.

In tal senso, anche il problema dell’effettivo anonimato del whistleblo­wer, oggetto di un acceso dibattito a livello locale, può essere letto in modo diverso. Non si tratta di favorire delazioni false, opportunis­tiche e irresponsa­bili, se le denunce anonime sono prese in consideraz­ione in quanto circostanz­iate e corroborat­e da elementi significat­ivi. Si tratta invece di rendere lo strumento più efficace. Nel momento in cui un soggetto in posizione gerarchica­mente ed economicam­ente debole deve decidere se segnalare illegalità, è più probabile che lo faccia in quanto sia certo che la sua identità non possa essere rivelata (magari proprio a chi sta denunciand­o), per non subire ritorsioni. E ciò aumenta l’effetto deterrente, che si basa solo parzialmen­te sulle denunce. Un sistema perfetto, insomma? No. Ma l’alternativ­a è rendere più difficile l’azione di contrasto ad abusi (e reati) quali corruzione, clientelis­mo e altri, che non solo abbassano la qualità etica dell’azione pubblica, ma fanno lievitare sensibilme­nte costi economici e sociali a danno dei cittadini. Le statistich­e e le classifich­e che vedono l’Italia in posizione (tristement­e) alta, in simili ambiti, dovrebbero far riflettere su chi, davvero, merita lo stigma sociale.

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