«Icone montane» Brevini, l’antologia supera i cliché
Il libro Icone montane di Franco Brevini, giornalista e scrittore «Le vette come rappresentazioni, luogo sacro di un altrove» La Svizzera, il turismo sportivo, la natura e l’approccio all’alto
Gli animali tipici dell’iconografia alpina, quali l’aquila, lo stambecco, il camoscio e il cervo; il Cervino, «divenuto nella perfezione geometrica delle sue linee la montagna per antonomasia»; lo chalet, «icona architettonica del mondo alpino», che ha avuto poi una diffusione a livello globale; l’Hedelweiss, la stella alpina «capostipite della flora» locale; Heidi «figura emblematica dell’idillio alpino» e, infine, la piccozza.
Sono queste le sei icone che Franco Brevini - professore di letteratura italiana all’Università di Bergamo e firma del
Corriere della Sera, di lui ricordiamo, tra l’altro, la partecipazione a Trento Film Festival 2016 - pone al centro di
Simboli della montagna, il suo nuovo libro uscito per i tipi de Il Mulino. Si tratta di un viaggio attraverso l’immaginario della montagna, che viene raccontata, appunto, attraverso alcuni simboli perché nel corso degli anni, sia compiendo ascensioni e traversate, sia scrivendo di alpinismo, l’autore afferma «di essersi ritrovato a fare i conti con immagini e oggetti della montagna carichi di una tale esemplarità da risultarne degli inconfondibili emblemi».
Professor Brevini, che cosa intende, innanzitutto, per «montagna» nel suo libro?
«La montagna è una categoria su cui si può discutere molto e come tutte le esperienze umane pone il soggetto di fronte a delle sue rappresentazioni che cambiano nel tempo e nello spazio. Ne è prova il fatto che la nostra idea di montagna è completamente diversa da quella che esisteva in antichità, per cui era considerata come luogo di un altrove spesso caratterizzato in termini di sacro».
Quando e quali elementi determinano il cambiamento di visione?
«A partire dalla seconda metà del Settecento la montagna diventa una sorta di laboratorio scientifico. Gli alpinisti che ora salgono sull’Everest come fosse una sorta di albero della cuccagna globale hanno certo una concezione molto diversa della montagna da quella, ad esempio, dei tibetani per i quali essa rappresenta invece la grande madre che permette con le sue acque la vivibilità del subcontinente indiano. Stessa cosa vale per gli atteggiamenti con cui si frequenta la montagna. All’inizio del Novecento, nel periodo della corsa alle grandi pareti, l’alpinismo era fortemente caratterizzato in senso ideologico, il free climbing
pone invece come valori dominanti il divertimento, il piacere, la cura del corpo».
Lei afferma che la montagna di per sé non è né bella né brutta, è la comunità umana ad assegnarle un valore estetico. Da quando le cime iniziano a diventare belle?
«Nel corso del Settecento cambiano i canoni estetici. Nell’antichità la bellezza era una proprietà delle cose, ciò che era bello corrispondeva a canoni di equilibrio, simmetria, ordine. Nel XVIII secolo, sulla scorta del successo sempre maggiore dell’individualismo - che conosce una fortuna che avrà la sua manifestazione storica più sensibile nelle rivoluzioni francesi e americane - ci si rende conto che le cose belle non sono solo quelle secondo i canoni dell’estetica classicista, ma anche quelle che procurano emozione al soggetto che vi si pone davanti».
Potrebbe approfondire il concetto dell’individualismo come base del nostro diverso approccio alla montagna?
«Di per sé elementi come rocce e ghiacciai non hanno nulla che si possa iscrivere agli oggetti estetici secondo il classicismo, ma il soggetto moderno prova grandi emozioni di fronte al dispiegarsi degli spettacoli naturali, da cui ricava anche un potenziamento del proprio io. Come afferma Kant nella Critica del
giudizio, è la coscienza morale dell’uomo che si trova di fronte alla grandiosità della natura da cui potrebbe essere travolto. Salendo in vetta, afferma una volta in più il suo io. Il passaggio da un posizione estetica a una più attiva, segna la nascita dell’alpinismo».
Che cambiamenti di immagine hanno avuto le montagne nella nostra cultura dalla metà del XVIII secolo ad oggi?
«Non dimentichiamo in questo contesto i fattori sociologici per spiegare che l’alpinismo nasce in Inghilterra, dove non ci sono grandi montagne, come moto di fuga da una natura sempre meno autentica. In questo senso lo scalatore è l’altra faccia di Charlie Chaplin risucchiato negli ingranaggi di Tempi
moderni, due facce dunque della stessa modernità, con un’industria devastante e l’uomo che cerca un riscatto nella natura primigenia».
Animali tipici dell’iconografia, Cervino, chalet, Edelweiss, Heidi, piccozza: che cosa dimostrano i sei simboli che lei ha scelto?
«Innanzitutto quanto la montagna sia una tipica acquisizione della modernità, legata in particolare al mondo elvetico che costituisce davvero la patria della montagna moderna. La Svizzera ha saputo infatti cogliere tempestivamente il fenomeno, pensiamo al sistema dei treni, delle strade, agli ottimi alberghi che offre. Ciò pone una serie di problemi identitari per gli altri paesi alpini, e naturalmente la Svizzera ha interesse a far sì che le nostre narrazioni passino attraverso i suoi simboli».
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