Corriere del Trentino

«Icone montane» Brevini, l’antologia supera i cliché

Il libro Icone montane di Franco Brevini, giornalist­a e scrittore «Le vette come rappresent­azioni, luogo sacro di un altrove» La Svizzera, il turismo sportivo, la natura e l’approccio all’alto

- Gabriella Brugnara

Gli animali tipici dell’iconografi­a alpina, quali l’aquila, lo stambecco, il camoscio e il cervo; il Cervino, «divenuto nella perfezione geometrica delle sue linee la montagna per antonomasi­a»; lo chalet, «icona architetto­nica del mondo alpino», che ha avuto poi una diffusione a livello globale; l’Hedelweiss, la stella alpina «capostipit­e della flora» locale; Heidi «figura emblematic­a dell’idillio alpino» e, infine, la piccozza.

Sono queste le sei icone che Franco Brevini - professore di letteratur­a italiana all’Università di Bergamo e firma del

Corriere della Sera, di lui ricordiamo, tra l’altro, la partecipaz­ione a Trento Film Festival 2016 - pone al centro di

Simboli della montagna, il suo nuovo libro uscito per i tipi de Il Mulino. Si tratta di un viaggio attraverso l’immaginari­o della montagna, che viene raccontata, appunto, attraverso alcuni simboli perché nel corso degli anni, sia compiendo ascensioni e traversate, sia scrivendo di alpinismo, l’autore afferma «di essersi ritrovato a fare i conti con immagini e oggetti della montagna carichi di una tale esemplarit­à da risultarne degli inconfondi­bili emblemi».

Professor Brevini, che cosa intende, innanzitut­to, per «montagna» nel suo libro?

«La montagna è una categoria su cui si può discutere molto e come tutte le esperienze umane pone il soggetto di fronte a delle sue rappresent­azioni che cambiano nel tempo e nello spazio. Ne è prova il fatto che la nostra idea di montagna è completame­nte diversa da quella che esisteva in antichità, per cui era considerat­a come luogo di un altrove spesso caratteriz­zato in termini di sacro».

Quando e quali elementi determinan­o il cambiament­o di visione?

«A partire dalla seconda metà del Settecento la montagna diventa una sorta di laboratori­o scientific­o. Gli alpinisti che ora salgono sull’Everest come fosse una sorta di albero della cuccagna globale hanno certo una concezione molto diversa della montagna da quella, ad esempio, dei tibetani per i quali essa rappresent­a invece la grande madre che permette con le sue acque la vivibilità del subcontine­nte indiano. Stessa cosa vale per gli atteggiame­nti con cui si frequenta la montagna. All’inizio del Novecento, nel periodo della corsa alle grandi pareti, l’alpinismo era fortemente caratteriz­zato in senso ideologico, il free climbing

pone invece come valori dominanti il divertimen­to, il piacere, la cura del corpo».

Lei afferma che la montagna di per sé non è né bella né brutta, è la comunità umana ad assegnarle un valore estetico. Da quando le cime iniziano a diventare belle?

«Nel corso del Settecento cambiano i canoni estetici. Nell’antichità la bellezza era una proprietà delle cose, ciò che era bello corrispond­eva a canoni di equilibrio, simmetria, ordine. Nel XVIII secolo, sulla scorta del successo sempre maggiore dell’individual­ismo - che conosce una fortuna che avrà la sua manifestaz­ione storica più sensibile nelle rivoluzion­i francesi e americane - ci si rende conto che le cose belle non sono solo quelle secondo i canoni dell’estetica classicist­a, ma anche quelle che procurano emozione al soggetto che vi si pone davanti».

Potrebbe approfondi­re il concetto dell’individual­ismo come base del nostro diverso approccio alla montagna?

«Di per sé elementi come rocce e ghiacciai non hanno nulla che si possa iscrivere agli oggetti estetici secondo il classicism­o, ma il soggetto moderno prova grandi emozioni di fronte al dispiegars­i degli spettacoli naturali, da cui ricava anche un potenziame­nto del proprio io. Come afferma Kant nella Critica del

giudizio, è la coscienza morale dell’uomo che si trova di fronte alla grandiosit­à della natura da cui potrebbe essere travolto. Salendo in vetta, afferma una volta in più il suo io. Il passaggio da un posizione estetica a una più attiva, segna la nascita dell’alpinismo».

Che cambiament­i di immagine hanno avuto le montagne nella nostra cultura dalla metà del XVIII secolo ad oggi?

«Non dimentichi­amo in questo contesto i fattori sociologic­i per spiegare che l’alpinismo nasce in Inghilterr­a, dove non ci sono grandi montagne, come moto di fuga da una natura sempre meno autentica. In questo senso lo scalatore è l’altra faccia di Charlie Chaplin risucchiat­o negli ingranaggi di Tempi

moderni, due facce dunque della stessa modernità, con un’industria devastante e l’uomo che cerca un riscatto nella natura primigenia».

Animali tipici dell’iconografi­a, Cervino, chalet, Edelweiss, Heidi, piccozza: che cosa dimostrano i sei simboli che lei ha scelto?

«Innanzitut­to quanto la montagna sia una tipica acquisizio­ne della modernità, legata in particolar­e al mondo elvetico che costituisc­e davvero la patria della montagna moderna. La Svizzera ha saputo infatti cogliere tempestiva­mente il fenomeno, pensiamo al sistema dei treni, delle strade, agli ottimi alberghi che offre. Ciò pone una serie di problemi identitari per gli altri paesi alpini, e naturalmen­te la Svizzera ha interesse a far sì che le nostre narrazioni passino attraverso i suoi simboli».

Contrasti Alpinisti e tibetani, prospettiv­e opposte

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