La figlia di Moro «A mio padre neanche una via»
Maria Fida Moro ha venduto casa: «A papà nemmeno una dedica» Boato ricorda la trattativa: «Provai con Curcio. Non venni ascoltato»
«Il Trentino non è solidale, vado via». Così ha deciso Maria, la figlia di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana ucciso nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse. Ha venduto la casa in Trentino. «Questa terra non ha mai dedicato nessun luogo a una persona che fatto tanto bene».
Dal 1978 al 2018: 40 anni dall’omicidio — ad opera delle Brigate Rosse — di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, fautore del dialogo durante la Guerra fredda tra la Dc e il Pci e in virtù di questa intuizione forse «sacrificato». Quarant’anni di misteri, depistaggi, verità mancanti, nonostante l’anniversario abbia permesso di riannodare i fili del più grande mistero italiano come ha fatto il giornalista Andrea Purgatori. Alla puntata speciale di Atlantide ha partecipato Marco Boato, in veste di ex di Lotta continua, che racconta di aver provato a coinvolgere per la liberazione Renato Curcio, ricevendo un rifiuto. Chiede invece di ricordare il padre «per la vita e non per la morte» la figlia Maria Fida, a lungo legata al Trentino con la famiglia, che rivela il suo dolore: «Lascio questa terra non più solidale: non ha dedicato nessun luogo a una persona che ha fatto tanto bene».
Aldo Moro, sequestrato la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani a Roma da un commando delle Br. Segregato nella prigione di via Montalcini — ma in quanti erano a conoscenza di quel covo e tacquero? —, infine fatto trovare senza vita il 9 maggio, in una Renault rossa in via Caetani, vicino alle sedi di Dc e Pci. Cinquantacinque giorni di agonia nei quali andarono a vuoti tutti i tentativi per liberarlo.
«In nome di un’amicizia interrotta ma non rinnegata — racconta Boato — avevo chiesto a Renato Curcio (leader del ’68 trentino, poi fondatore delle prime Br e arrestato nel 1974, ndr) di pronunciarsi per il diritto alla vita di Aldo Moro. Mi rispose però di non rivolgermi più a lui personalmente, perché lo mettevo in difficoltà con i compagni in carcere. In seguito disse una frase terribile: l’uccisione di Moro è il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi».
Il delitto, di cui fu esecutore il terrorismo rosso, è chiaro nelle sue conseguenze storiche. «Se non fosse stato ucciso — dice Boato —, con tutta probabilità sarebbe diventato presidente della Repubblica, anche per la sua grande capacità di mediatore tra le culture cattolico-democratica, socialista e comunista. Era stato lui il garante dei governi di unità nazionale, inaugurati nel 1976, quando era impossibile una maggioranza di centro-sinistra senza il Pci di Berlinguer. La sua morte fu un grande trauma per l’Italia e pose fine all’unità nazionale. Oggi manca una figura come la sua, proprio quando si ripresenta un’ingovernabilità simile a quella del 1976: nessuno degli attuali tre poli può governare da solo. Sergio Mattarella è la figura istituzionale che più gli assomiglia».
Il tributo di sangue cambiò il corso della politica italiana. E che la chiave per comprenderne le ragioni storiche e geopolitiche non sia in Italia lo si potrebbe dedurre da alcune dichiarazioni di Giulio Andreotti. A posteriori rivelò che Moro nel viaggio negli Stati Uniti nel 1974, in base ad alcune fonti tra le quali la moglie Eleonora, subì delle vere e proprie minacce dall’allora segretario di Stato Usa, Henry Kissinger. In ballo c’era l’ipotesi del compromesso storico, in un’Italia anello debole dell’Alleanza atlantica, nella rigida spartizione tra blocchi.
Del resto, «L’Italia era ed è il Paese della Nato con una posizione strategica. A qualcuno dava fastidio che si affermasse una democrazia compiuta. Papà era un pacificatore», aveva precisato Maria Fida Moro al Corriere del Trentino nel 2016.
Oggi sempre la figlia dello statista consegna parole «di grande semplicità»: «Il quarantennale celebra la morte, io vorrei celebrarne la vita, ricordarlo per la sua opera, l’amore per la bontà e per lo Stato. Sarebbe ora che i brigatisti imparassero il valore del silenzio. Non vanno resi né eroi né educatori. Vorrei da loro più rispetto».
La famiglia Moro ha un rapporto di lunga data con il Trentino, iniziato nel 1974. «Da quando mia madre — racconta Maria Fida — mi incaricò di trovare un luogo bellissimo, dove però i monti non fossero troppo incombenti, come non piaceva a mio padre. Bellamonte (dove la famiglia prese una casa di villeggiatura, ndr) con il suo anfiteatro di montagne era perfetto». Poi Maria Fida si spostò a Predazzo, in una casa che ha da poco venduto per tornare vicino a Roma. «Il Trentino è stata una grande delusione. Non lo riconosco più. Da terra solidale e gentile è diventata ricca e insignificante. Non voglio fare polemiche, ma tra tanti Comuni italiani che hanno dedicato un luogo a mio padre, una persona che ha dato tanto, non ce n’è nessuno in questa provincia. Per me è un dolore».
L’erede Io vorrei celebrarne la vita, non la morte I brigatisti? Imparino il valore del silenzio