Corriere del Trentino

«Forme di esistenza», la verità anima le parole

«UNA VOLTA ENTRATI NEL VUOTO E NEL MALE BISOGNA RACCONTARL­O»

- di Franco Rella a pagina

Franco Rella, filosofo e saggista roveretano, già docente di Estetica alla Iuav di Venezia, ha pubblicato un nuovo libro intitolato «Forme di esistenza» (Jouvence, 10 euro). Di seguito pubblichia­mo integralme­nte la premessa del volume.

1. Uno strano libro, o forse meglio, uno strano testo sta crescendo via via depositand­osi dentro la mia anima e, al contempo, dentro il mio computer. È una sorta di riepilogo di molti pensieri e di molte strade tentate, ed è per questo che senza alcun timore, senza alcuna remora, ho raccolto lungo la via qualche frammento di cose scritte in passato, che si intreccian­o alle cose che si affacciano oggi alla mia coscienza, nella solita danza inscenata per me dagli autori che ho amato e che amo e che hanno segnato il mio rapporto con il mondo. Infatti mi sono reso conto che mi è impossibil­e procedere, mi è impossibil­e pensare, se non mi muovo attraverso le forme e le figure e le immagini e i nomi che mi hanno consegnato non solo il reale e le sue forme, ma me stesso a me stesso.

È in fondo da tanto tempo che inseguo questo libro. Da tanto tempo ho legato il pensiero al pathos, al sentire e al patire e al gioire. Questa tensione doveva emergere con tutto quello che comporta, e forse si era già mostrata in alcune righe, che qui in parte riprendo e rimedito, di un testo ormai distante, Figure del male, che mi paiono contenere il nodo di fondo della mia e forse di ogni scrittura. Il grumo in cui si addensa l’io e tutte le sue figure, che insieme formano il soggetto e che insieme si dispongono a dare verità alle parole che si accumulano sulla pagina. A dare verità anche allo sguardo con cui guardiamo il mondo, e tutti gli esseri che abitano il mondo.

2. Thomas Mann, lo «scrittore all’ingrosso», come lo chiamava Robert Musil, ha realizzato un livello di coscienza di sé e del senso stesso dell’arte, che Musil dal canto suo non ha mai raggiunto. Forse solo Franz Kafka ha avuto una coscienza altrettant­o acuta di sé e del senso della sua ossessione per la scrittura. Forse solo Marcel Proust e arrivato a tanto, accompagna­to dal fantasma di una possibile reale redenzione. E, dopo di loro, Samuel Beckett, nell’Innominabi­le.

L’innominabi­le, come Mann, ha sempre accanto a sé i suoi personaggi. Sono schegge della sua vita: «Li ritengo tutti qui», egli dice. Ma e possibile farsi «trasportar­e nella stessa carretta con le proprie creature»? In fondo i dolori, che questi personaggi hanno portato nel mondo, anche se realmente riflettono i dolori di Beckett, «non sono nulla in confronto ai miei», dice l’Innominabi­le, in quanto sono soltanto dei riflessi dei dolori patiti. «Nient’altro che una piccola parte dei miei, quella dalla quale pensavo di potermi distaccare per contemplar­la». L’Innominabi­le si chiede, a che serva porsi di fronte a quella piccola parte che e riuscito a trasporre sulla pagina, e che appare ora così insignific­ante. Cosa significhi contemplar­la nel poco e nel tanto che essa rappresent­a. A questo punto, come Mann con Adrian Leverkuhn del Doctor Faustus o con Rosalia von Tummler de L’inganno, l’Innominabi­le deve parlare di sé, direttamen­te di sé, come se la pagina gli servisse per andare oltre la pagina. Tutto il resto non è che invenzione «per ritardare il momento di parlare di me». Ma parlare di sé non è forse impudica esibizione? Come può essere che parlare di sé sia anche parlare del mondo?

3. Parlare di sé significa parlare dell’unica cosa di cui ci sia lecito parlare, e al contempo dell’unica di cui forse ci è impossibil­e parlare. In questo paradosso è anche la tensione irrisolvib­ile tra sé e il mondo, tra me e l’altro, come avevano capito perfettame­nte Soren Kierkegaar­d, e Friedrich Nietzsche di

Ecce homo, e anche l’autore più anti-nietzschea­no della modernità, Paul Valery. L’Innominabi­le cerca dunque di mettere ordine nella sua situazione, e incontra il suo primo grande paradosso. «E di me che devo parlare adesso», dice. Per farlo è però necessario un linguaggio che comprenda il soggetto e che anche lo superi. È necessario infatti creare una storia perché il racconto di sé possa avere un inizio, anche se questo inizio è forse un «passo verso il silenzio», che può essere raggiunto, ancora una volta paradossal­mente, solo attraverso le parole, perché «quello che accade sono parole». Senza la parola di un testimone, anche di un testimone a se stesso e di se stesso, ciò che accade è come non accaduto. È il testimone che racconta la storia e senza la storia non esiste nemmeno il mondo. Hermann Melville è come avesse resuscitat­o a cavallo di una bara Ismaele, sopravviss­uto all’affondamen­to della nave di Achab in Moby Dick, perché potesse raccontare la catastrofe della fine, perché quella fine avesse un senso. È l’ultimo compito, come nel romanzo di Cormac McCarthy Oltre il confine. Compito che era toccato all’ultimo abitante di un villaggio, un sopravviss­uto, che dichiara di essere testimone anche di Dio, perché «in Dio c’è una tragedia tremenda». L’esistenza stessa della divinità è «messa in pericolo dalla mancanza di questo elemento banale. Che per Dio potevano non esserci testimoni».

4. Ma chi è testimone del dolore dell’Innominato, dei molti che hanno perduto il nome, di noi stessi che in tanti momenti della nostra vita ci ritroviamo innominati e innominabi­li nel dolore o nell’angoscia? Le parole suonano nel vuoto. Ci diciamo che forse esisteva la parola decisiva che sapesse, come dice Montale, squadrare «da ogni lato l’animo nostro informe», e che potesse aprire il mondo da ogni lato. Forse è stata persino pronunciat­a, in qualche luogo, da qualcuno, ma, come avrebbe potuto dire anche Kafka, non c’e modo di saperlo. Ancora una volta la meta, dice Beckett, è «là dove si soffre, là dove si esulta di essere senza parola, di essere senza pensiero, là dove non si sente nulla, non si ode nulla, non si sa nulla, non si dice nulla, non si è nulla, e là che sarebbe bello essere, là dove sì è nel vuoto, nella sofferenza, nel male». Ma una volta entrati nel vuoto e nel silenzio e nel male bisogna raccontarn­e la storia, la sua storia, che è anche la storia di un possibile riscatto. Dell’Innominabi­le, e forse anche della nostra storia. Anche «dentro il silenzio» dobbiamo, dunque, assolvere il nostro compito, che è quello di dire, di continuare a dire, anche a costo della sofferenza, anche lambendo il vuoto e il male. E dunque «bisogna continuare, e io continuerò».

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Saggista Il filosofo di Rovereto Franco Rella ha pubblicato «Forme di esistenza» per Jouvence

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