TRENTO CAMBIA I NUMERI AIUTANO A INTERPRETARLA
Sono un sociologo, non un urbanista. Ma mi sono occupato della città, delle sue trasformazioni, del suo passato e, soprattutto, del suo futuro. Quando ho letto L’editoriale dell’amico Pino Scaglione sul Corriere del
Trentino di martedì, intitolato «Una città oltre i numeri», ho fatto un salto sulla sedia. Cioè, lo avrei fatto se non fossi un poco (ma poco) sovrappeso. Le mie tesi divergono dalle sue per due motivi.
Il primo riguarda la statistica classica, di tradizione. Non credo che i buoni, vecchi dati quantitativi non abbiano più molto da rivelarci. Ci dicono cose che noi, statistici della vecchia scuola, avevamo detto già quindici anni fa: le nostre proiezioni di allora (parlo di proiezioni e non di previsioni, perché — come diceva Nils Bohr — è molto difficile fare previsioni, soprattutto se riguardano il futuro...) anticipavano proprio le tendenze che trovano puntuale conferma nelle statistiche demografiche rese pubbliche negli ultimi giorni. Non solo: di quelle statistiche quantitative avevamo fatto uno strumento di programmazione, ossia uno strumento per preparare il tempo a venire.
Il secondo motivo riguarda un tema suggestivo: la città delle relazioni, degli scambi, dei flussi. Non c’è molto di nuovo sotto il sole: se non che abbiamo nuovi strumenti per comprendere antiche dinamiche. Ricordo quando, una decina d’anni fa, invitammo a Trento a parlare a un appuntamento del Laboratorio urbano una giovanissima Giorgia Lupi, ufficialmente un architetto (in realtà una sua mutazione genetica), che si occupava della rappresentazione visuale di dati. Lei aveva fondato una start up che aveva poi iniziato a lavorare, fra gli altri, per «La lettura» del
Corriere della Sera. Adesso il suo lavoro lo chiama information designer. Lei, però, oggi vive e lavora a Brooklyn, e ha portato i suoi lavori al MoMA. Pensare a nuovi strumenti per prendere decisioni (al riguardo non posso non essere d’accordo con Pino) significa abbattere le barriere tra istogrammi e rappresentazioni creative: purché i dati, quando parlano, li si voglia e li si sappia ascoltare. Certo, l’urbanistica negli anni e nei decenni ha commesso errori ortografici difficilmente correggibili, ma credo sarebbe un errore se le volessimo affidare un compito eccessivo (nel senso di eccedente il suo statuto disciplinare e i suoi strumenti, vale a dire, in fondo, i suoi stessi limiti). Lo sostengo perché resto convinto che una città non possa cambiare se non attraverso una coevoluzione tra la sua forma, faticosamente governabile, e la gente che la vive. Solo che oggi il nodo da risolvere riguarda proprio le attese, le speranze, le paure, le ipotesi di futuro della gente che la vive: elementi molto meno prevedibili e poco o per nulla governabili. Questo ci dicono, soprattutto se consideriamo la loro dimensione diacronica, i numeri. * Ex dirigente del Servizio programmazione del Comune di Trento
Quello che io chiamo oggi «malessere urbano» purtroppo è figlio, degenere, delle passate (e odierne) stagioni della statistica quantitativa. Le città, appunto, sono cresciute per rispondere a «quantità» solo previste, senza qualità. Numeri, solo numeri. Al panorama esteticamente desolante di oggi, la rete e la tecnologia — con le capacità di previsione rapida (magari insieme a una statistica non più tradizionale) — possono opporre un futuro diverso: meno numeri, più bellezza ed efficenza.