Travolti dalle valanghe Ecco l’équipe salva-vite
Graffigna: «Fondamentale il primo intervento». I casi di ipotermia: tanti senza tetto
L’unità di cardiochirurgia trentina è il centro di riferimento dell’area dolomitica per curare casi di ipotermia dovuti a valanghe. Il primario: fattore tempo vitale.
La circolazione extracorporea deve essere attivata entro 45-60 minuti. Una bimba arrivò in ospedale con una temperatura di venti gradi e si è salvata
TRENTO L’ultima tragedia risale a pochi giorni fa. Tre scialpinisti austriaci sono stati travolti da una valanga sul Gran Zebrù in Alto Adige, solo una donna era stata estratta ancora viva dalla montagna di neve che l’aveva sepolta, quando è arrivata all’ospedale Santa Chiara di Trento aveva una temperatura corporea di 22 gradi. È morta poco dopo. L’equipe dell’unità di cardiochirurgia dell’Azienda sanitaria di Trento, specializzata in delicati interventi di circolazione extracorporea (Cec), non è riuscita a salvare la giovane perché sono sorte complicanze.
«Gli interventi sulle persone vittime di valanghe sono i più complessi perché subentrano i traumi subiti poi c’è il problema del soffocamento, nel caso della turista austriaca si è riusciti a innalzare la temperatura corporea, ma la donna è morta per un’emorragia interna». Angelo Graffigna, direttore di cardiochirurgia di Trento spiega il difficile e delicato lavoro dell’equipe (due chirurghi, un anestesista, un infermiere e due perfusionisti) che opera nei casi di ipotermia.
Non tutti lo sanno, ma l’unità trentina dell’ospedale Santa Chiara è il centro di riferimento per l’intera area dolomitica, dall’Alto Adige a Belluno, per i «valangati» e per curare l’ipotermia, cioè «riscaldare» il sangue, una tecnica utilizzata, grazie anche ad una speciale apparecchiatura sia per casi di persone estratte ancora vive dalle valanghe, ma anche per casi di ipotermia dovuta a cadute in acqua o da notti trascorse all’addiaccio. In media si contano cinque casi all’anno che su un totale di 450 interventi effettuati dall’unità di cardiochirurgia di Trento, di cui due terzi sono operazioni a cuore aperto, non sono moltissimi. Ma si tratta di casi molto delicati che hanno percentuale di successo del 40%. «Ci sono tante variabili — spiega il primario — e sicuramente una di queste è il fattore tempo. La circolazione extracorporea deve essere attivata in media entro 45 - 60 minuti, oltre questo tempo diventa difficile salvare un paziente». Entro un’ora si è visto che è possibiso le recuperare le funzioni vitali del paziente. L’evoluzione, come precisa il primario, dipende poi da tante cose, soprattutto dai traumi subiti. «Questo tipo di attività, la Cec, si deve collocare su un’ossatura di recupero e primo soccorso molto collaudata — spiega Graffigna — e in Trentino c’è. C’è una rete di solidarietà e volontariato che è difficile trovare altrove».
Quando la temperatura del corpo si abbassa sotto i 32-30 gradi il cuore smette di battere, per questo è fondamente l’intervento di primo soccor- per riattivare il cuore. In Alto Adige recentemente, per migliorare gli interventi di primo intervento, è stato adottato anche il massaggiatore automatico che è più efficace e meno dannoso rispetto al massaggio cardiaco manuale. A breve sarà adottato anche in Trentino. Nei casi di «valangati», trascorsi 35 minuti dal momento in cui restano sepolti sotto la neve la percentuale di sopravvivenza è poco superiore al 30%, dopo novanta minuti inizia la fase di ipotermia e la possibilità di sopravvivere è poco superiore al 20%. Il paziente quando arriva in ospedale viene collegato a questa particolare macchina che contiene un ossigenatore, una pompa e uno scambiatore di calore. La circolazione extracorporea è una modalità di circolazione al di fuori dell’organismo che permette di convogliare il sangue verso la macchina, definita macchina cuore-polmone, durante il procedimento il sangue viene ossigenato e poi «riscaldato» bypassando il cuore e i polmoni, i due organi non vengono quindi sollecitati. Al Santa Chiara c’è una particolare macchina che dà la possibilità di collegare il paziente per più giorni, anche fino a una settimana. «I casi di ipotermia dovuta a cadute in acqua sono quelli che hanno maggior probabilità di successo se vengono tratti in salvo prontamente» spiega Graffigna. Il primario ricorda il dramma di una bimba di sei anni che era caduta in un torrente di montagna e quando è stata recuperata esanime dai soccorritori aveva una temperatura corporea di 20 gradi. «Si è salvata e ora sta bene — spiega — un turista svizzero in Marmolada è stato trovato in uno stato di grave ipotermia a causa di una tempesta, si è salvato ed è riuscito a tornare a casa con le sue gambe».
Sono molti i casi anche di senzatetto soccorsi in ipotermia dopo una notte trascorsa all’addiaccio. «Contrariamente a quanto si pensa — chiarisce il primario — l’alcol se apparentemente può dare sollievo, ma accelera il processo di ipotermia. Per questo ci sono diversi casi, perché spesso la vita dei senza tetto, delle persone che dormono sulle panchine è accompagnata anche dall’abuso di alcolici».