Parla Attivissimo, detective antibufala «Viaggio nei siti»
Parla Attivissimo, il detective antibufala: «La pubblicità viene veicolata da notizie clamorose»
Notizie false, distorte, inventate. Triste consuetudine ormai, sia nelle testate giornalistiche tradizionali che sui siti internet. Ma c’è chi le smaschera per lavoro, come Paolo Attivissimo, giornalista e consulente informatico, che il 13 aprile sarà al Muse di Trento alle 20.30 nell’ambito della Smart city week.
Attivissimo, per questo suo intervento viene presentato come «detective antibufala»: cosa vuol dire?
«A volte me lo chiedo anch’io (ride, ndr). Si tratta di un’etichetta comoda per indicare un lavoro che consiste nel verificare una storia che è stata pubblicata da un sito o un giornale, una diceria che circola su un blog, una foto: ma non sono solo, ho tanti colleghi».
Bufale e fake news sono la stessa cosa?
«Se ne discute parecchio. Per me c’è una differenza importante: fake news significa artefatto, falsificato: è una notizia intenzionalmente falsa. Una bufala è una storia che qualcuno in buona fede diffonde pensando sia vera ma non lo è: può essere un equivoco, un errore giornalistico oppure conseguenza di una fake news».
Perché qualcuno dovrebbe avere interesse a diffondere notizie intenzionalmente false?
«Le ragioni sono moltissime, dalla propaganda all’ideologia, dal desiderio di creare una burla alla volontà di profitto: oggi le fake news sono diventate un motore economico».
In che modo?
«Oggi è molto facile per un singolo o un gruppo creare un sito in cui viene inserita della pubblicità per poi passare a contenuti che attirino potenziali lettori a visitare la pagina, dunque le inserzioni: più le si vede, più si guadagna. Una fake news clamorosa attrae utenti sul sito che la pubblica: si accorgono subito del suo essere falsa, ma intanto hanno visionato la pubblicità. Durante le presidenziali americane un gruppo di ragazzi macedoni ha intascato migliaia di euro creando notizie false fra cui anche l’approvazione del Papa alla candidatura di Trump».
Bufale e fake news sono un problema di internet o di tutti i media?
«Tutti i mezzi di comunicazione ne sono afflitti perché c’è un interscambio continuo di informazioni fra i due mondi: vedo giornalisti attingere a blog e viceversa, non c’è più separazione».
Come difendersi?
«Un internauta comune ha molti modi per farlo. Il primo è informarsi, accettare che in internet ci siano sacche di qualità e mari di stupidaggini, capire che esiste una gerarchia di valore. È importante, poi, anche sapere come si lavora male nelle redazioni, a causa della fretta, della mancanza di soldi, dell’assenza di figure come quella del fact checker, presente all’estero, che verifica le notizie che si intendono pubblicare e le fonti».
E i giornalisti, invece, cosa possono fare?
«È importante che approfittino di internet: mette a disposizione strumenti di verifica, ricerca, indagine e controllo delle immagini che sono velocissimi. La maggior parte delle mie inchieste dura pochi minuti: quando mi arriva una segnalazione uso quattro o cinque strumenti con le tecniche che ho imparato e capisco se una notizia è vera o falsa. Quando è stato ucciso Osama Bin Laden diversi quotidiani hanno pubblicato una foto del cadavere falsa: sarebbe bastato molto poco per capire che era un fotogramma del film “Black hawk down”».
La grande propagazione di bufale e fake news non è spinta forse da una credulità diffusa?
«È un dubbio che mi sono sempre posto: si spargono perché ci credono in tanti o perché oggi quei pochi che lo fanno sono più capaci di farsi vedere? Si prenda ad esempio la falsa accusa per cui il vaccino anti-influenzale causa l’influenza: diventa la notizia più condivisa su Facebook da 810.000 utenti. Ma ci sono milioni di persone che non ci hanno creduto. Oggi, però, notiamo di più quelli che la notizia l’hanno condivisa, le persone hanno maggiori capacità di esprimersi».
È una questione di cambiamento nei rapporti sociali?
«Quando ero ragazzo c’era fiducia nell’autorità: se un medico faceva una prescrizione la si seguiva senza fiatare. Oggi la diagnosi si fa a tre: ci sono il professionista, il paziente e Google. Forse le due cose messe insieme hanno creato questo putiferio. E la maggioranza silenziosa sfugge, non ha un pulsante per esprimersi».
Ci fa qualche esempio di fake news che l’ha colpita particolarmente?
«Mi ha molto amareggiato la falsa intervista a Samantha Cristoforetti. Di questi giorni, invece, il sensazionalismo attorno all’imminente rientro incontrollato della stazione spaziale cinese Tiangong-1a: i rischi che cada sull’Italia sono assolutamente minimi, tanto che questa storia non dovrebbe neanche essere una notizia. Queste sono frivole, ma ci sono anche casi molto gravi: la più pericolosa riguarda il presunto legame fra vaccini e autismo, che ha avuto origine da una pubblicazione scientifica fraudolenta dell’ex medico britannico Andrew Wakefield».