NOTIZIE MEDICHE, SÌ A FACEBOOK
L’uso di Facebook deve essere sfruttato dalle istituzioni sanitarie. I social media ci sono e se si vuole essere ascoltati dai cittadini, bisogna investire in tale direzione.
Gentile direttore, abbiamo letto con interesse l’editoriale a firma di Nicola Lugaresi pubblicato sulla prima pagina del Corriere del
Trentino di venerdì scorso dal titolo «Facebook, cura sbagliata». Un’analisi nella quale l’autore ragiona sul ruolo di Facebook in medicina, prendendo spunto da un intervento tenuto da Eugenio Santoro esperto su questo tema, in occasione della sua lecture che la Fondazione Bruno Kessler, attraverso il programma «FBK per la Salute», ha organizzato a Trento il 28 marzo.
Prima di lasciare lo spazio di replica a Santoro, che gentilmente si è messo a disposizione, ci preme chiarire che «FBK per la Salute», con le iniziative che porta avanti, vuole dare un contributo — tra gli altri — alla formazione in campo medico sull’uso delle tecnologie Ict in sanità. E questo con la convinzione di offrire strumenti formativi che aiutino a dominare la tecnologia digitale, ormai permeante la nostra vita, per non esserne da essa dominati.
Ecco di seguito dunque la risposta del relatore, che noi condividiamo appieno. * «FBK per la Salute», Fondazione Bruno Kessler
Sono d’accordo con l’autore che i social media e i social network (compreso Facebook) non debbano essere usati da istituzioni sanitarie e medici per fornire consigli per «curare» i pazienti, né tantomeno per condividere con i pazienti dati sensibili.
Oltre alle questioni sollevate dall’autore (rispetto della privacy, riservatezza dei dati) ce ne sono altre che riguardano la deontologia professionale, sulle quali molte società scientifiche internazionali (a eccezione di quelle italiane, incredibilmente assenti da questa discussione) si sono espresse ponendo di fatto numerosi ostacoli all’impiego di tali strumenti per finalità di cura da parte dei medici che esse rappresentano. E infatti nel mio intervento pubblico ho fatto molta attenzione nel chiarire che questa non è la finalità dei social network in medicina, per la quale il rapporto tradizionale medico-paziente offre a oggi la migliore soluzione.
Penso invece, e qui sono in disaccordo su quanto sostiene Lugaresi nel suo editoriale, che l’uso di Facebook, Twitter, Instagram e delle altre piattaforme di social media e social networking debba essere seriamente preso in considerazione da parte delle istituzioni sanitarie (partendo da quelle centrali come il ministero della Salute, fino ad arrivare a quelle locali come le rispettive aziende sanitarie). È vero, come sostiene Lugaresi, che Facebook è nato come strumento di connessione tra individui, ma oggi insieme agli altri social media è diventato uno strumento di informazione e comunicazione, attraverso il quale un numero sempre maggiore di utenti (si calcola 6 su 10) si informa.
Lo stesso Zuckerberg ha dovuto ammetterlo alla fine del 2016 («Non scriviamo notizie ma facciamo molto più che distribuirle»), prendendo atto della trasformazione della sua creatura da piattaforma di social network a media company. Le ragioni a supporto di una simile tesi sono varie. Intanto presidiare i canali social aiuta a diffondere le informazioni sulla salute e, per quanto possibile, a combattere il fenomeno delle fake news. È vero che chi ha interesse a creare disinformazione su un qualsiasi argomento (incluso quello sanitario) è più abile nell’usare meccanismi tecnici di persuasione e a sfruttare le potenzialità dei social media per raggiungere i suoi scopi. Ma d’altra parte le istituzioni non possono ignorare che tali strumenti esistano. Non è più sufficiente creare una buona informazione sanitaria. Occorre imparare a comunicarla attraverso i social media, usando linguaggi, piattaforme, strumenti e forme di comunicazione appropriati al pubblico che si desidera raggiungere. Altrimenti il rischio è che si realizzino eccellenti portali sanitari (come i recenti www.dottoremaeveroche.it e www.issalute.it lanciati rispettivamente dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri e dall’Istituto superiore di Sanità) che però nessuno andrà visitare.
Diversi studi in letteratura dimostrano inoltre che l’impiego dei social media aiuta a diffondere meglio messaggi importanti dal punto di vista della salute pubblica, e che essi hanno importanti ricadute nella riduzione del rischio di sviluppare malattie basate su errati stili di vita. In molte esperienze attivate in giro per il mondo tali strumenti (insieme alle tecniche per modificare il comportamento delle persone) vengono impiegati per fare la cosiddetta «promozione della salute» e per combattere l’obesità, la sedentarietà, l’abuso di alcol, l’eccessiva esposizione al fumo di sigarette.
Anche i singoli medici potrebbero dare il proprio contributo e usare i social media per diffondere contenuti affidabili, promuovere corretti stili di vita e combattere le fake news. L’esempio di Roberto Burioni, che da alcuni anni gestisce con successo una pagina pubblica su Facebook attraverso la quale fornisce informazioni su vaccini e vaccinazioni, è un caso emblematico studiato anche nelle università da parte di chi si occupa di comunicazione.
Uno degli scogli all’impiego di questi strumenti è la formazione al loro uso. Molte istituzioni sanitarie, prive delle necessarie competenze, ancora latitano e non hanno preso una chiara decisione su come vogliono essere presenti sui social media. Lo stesso vale per i medici, che sono forti fruitori di tali strumenti ma che ancora non sono in grado di sfruttarne le potenzialità per il proprio aggiornamento professionale e per la propria pratica clinica. I programmi di formazione e di ricerca che l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano ha attivato ormai da diversi anni sul corretto uso dei social media in ambito sanitario vanno proprio verso questa direzione.
La strada è tuttavia tracciata. I social media ci sono e continueranno a essere impiegati dai cittadini per ottenere informazioni, anche quelle sanitarie. Se le istituzioni sanitarie vogliono avere maggiori possibilità di essere ascoltate, dovranno investire (economicamente, organizzativamente, professionalmente) in questa direzione e consolidare la loro presenza sui social media. Una maggiore educazione da parte di chi fruisce dei contenuti (in rete come sui social media) è certamente auspicabile, ma non risolutiva se in campo esiste solo la voce dei «disinformatori» (per scelta o per professione).