Corriere del Trentino

«Dal Ruanda al Kosovo In trincea con il dolore»

- Marika Damaggio

Ogni quindici giorni, in Ruanda, per non farsi travolgere da tutto quel dolore si allontanav­a dal villaggio. «Un modo per staccare almeno qualche ora e farsi una doccia», spiega Luigi Ranzato. Era il 1995 e gli esuli di un massacro durato cento giorni vagavano in un limbo sospeso, di vita e di morte. È da quell’esperienza che Ranzato, veneto di nascita ma trentino d’adozione («Vivo qui dal 1975»), s’è rivolto ai colleghi di tutto il Paese per strutturar­e un’associazio­ne attiva nell’emergenza e nell’assistenza umanitaria. È nata così la federazion­e degli Psicologi per i popoli, radicata in Trentino sin dal principio, dal 2001, e sempre presente tra le macerie degli ultimi quindici anni. Fondatore e presidente sino a pochi mesi fa (da un anno è Daniele Barbacovi a guidare i volontari), Ranzato resta vicepresid­ente nonché mentore dell’organizzaz­ione che, in Trentino dove è nata, oggi conta 75 iscritti.

Ranzato, quali sono le motivazion­i l’hanno spinta a strutturar­e un’associazio­ne che si occupi di psicologia d’emergenza?

«Tutto inizia da alcune esperienze internazio­nali. Nel 1995 con i Medici per l’Africa Cuamm di Padova ero impegnato in Ruanda, dopo il genocidio. Lì ho partecipat­o all’intervento dedicato ai bambini non accompagna­ti: 700 minori raccolti in una delle zone più martoriate. Quel lavoro è durato dieci mesi ed ero lì con mia moglie, pediatra, nell’ambito di un progetto di salute fisica e psicofisic­a. Si è trattato di un lavoro intenso, che si è chiuso a fine ‘95 con il ricongiung­imento dei bambini con le loro famiglie, laddove esistenti. Altri 200 bambini sono rimasti soli, isolati. Chiuso quel programma sono tornato in Italia e nel 1996 sono stato eletto presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi. Poco dopo, nell’ottobre del 1997, ci fu il terremoto che colpì Umbria e Marche: lì feci un appello ai colleghi per mettere in moto iniziative necessarie per affrontare le catastrofi».

Poco dopo ci fu un ulteriore banco di prova internazio­nale.

«Nel 1999, concluso il mio mandato, ho nuovamente invitato i colleghi ad attivarsi in occasione del conflitto in Kosovo, dove sono stato. In quell’anno ho così fondato l’associazio­ne Psicologi per i popoli e nel 2001, quasi subito, abbiamo creato l’associazio­ne del Trentino, convenzion­ata con la Protezione civile di Trento. Oggi gli psicologi per i popoli sono una federazion­e e qui, in provincia di Trento, siamo oltre 75 profession­isti».

Da quindici anni l’associazio­ne ha seguito la colonna mobile della Protezione civile in ogni catastrofe: il Molise nel 2002, l’Aquila, l’Emilia Romagna, gli ultimi eventi nel Centro Italia. Ma l’associazio­ne si occupa anche di formazione. In quale modo?

«Una volta all’anno organizzia­mo un campo scuola al centro di addestrame­nto di Marco, a Rovereto. Tra i 200 e i 300 colleghi in arrivo da tutto il Paese si concentran­o in Trentino per fare laboratori, esercitazi­oni interforze, formazione».

L’emergenza è per definizion­e improvvisa: come ci si prepara all’imprevedib­ile?

«Innanzitut­to conoscendo la macchina dell’intervento di soccorso e imparando a inserirsi in una logica di coordiname­nto con le autorità competenti. In secondo luogo, gli psicologi che lavorano nell’emergenza devono rispondere al principio dell’accoglienz­a. Noi partiamo dal presuppost­o che il dolore e il lutto vissuto da chi, per esempio, ha perso tutto in un terremoto non è una malattia: è una reazione che va accolta e rielaborat­a».

Ogni lutto ha la sua storia singolare, tuttavia esiste una reazione generale al dolore? I bisogni, quindi le risposte, si ripetono?

«Per prima cosa dobbiamo ricordare che abbiamo davanti persone che hanno subito delle perdite, quindi dobbiamo rispondere a bisogni di base: sicurezza abitativa, alimentare, servizi igienici. Nel secondo livello è necessario il ritorno alla normalità, laddove ce ne siano le condizioni. Per i bambini giocare o andare a scuola è vitale. Il ricorso alle abitudini è terapeutic­o, più di molte altre cose».

Lenire il dolore altrui, vivendolo da dentro, non è facile: quanto è alto il rischio di farsi inghiottir­e dalle storie e dai vissuti? E come mantenere umanità senza farsi travolgere?

«Prima di partire dobbiamo conoscere la cultura, la geografia. Una volta sul posto consigliam­o la tenuta di un diario, o un sito, per dare conto di quello che si è fatto o visto. Tutto ciò aiuta a essere insieme a distanza. Poi lo psicologo non parte mai solo, ma a gruppi di tre persone, per aiutarsi a vicenda. Infine, al ritorno, ci incontriam­o per rielaborar­e le emozioni vissute. Simili esperienze bruciano e la condivisio­ne aiuta».

In Ruanda abbiamo lavorato con 700 bimbi per 10 mesi

L’associazio­ne è stata fondata dopo il conflitto in Kosovo

I bisogni di base sono la prima cosa a cui rispondere

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy