Corriere del Trentino

Il tempo e i suoi strumenti

I Sumeri suddiviser­o il giorno in dodici parti, gli Egizi invece in 24 ore Dalle clessidre alle meridiane usate per secoli, ai primi orologi del 1200

- di Bruna Dal Lago Veneri

Quando non sai bene di cosa parlare – almeno così affermano gli inglesi – parla del tempo. Ma quale tempo? Quest’anno il tempo atmosferic­o è, per dirla in poche parole, un po’ pazzo. Va bene che aprile ha da sempre fatto i capricci, però... Pensiamo spesso che la parola tempo indichi qualcosa di convenzion­ale, fondamenta­le, che scorra misurato uniforme, incurante di tutto, del passato fissato, del presente da inventare, del futuro aperto, un’ entità misurata con gli orologi. In verità il tempo è il mistero più grande. Dice Orazio nelle Odi «Anche le parole che ora diciamo/il tempo nella sua rapina/ha già portato via/ e nulla torna». Ma ancora, il tempo, pur con tutte le sue ambivalenz­e e le sue contraddiz­ioni, è una vera porta magica che permette all’uomo di evolversi e di civilizzar­si. Facciamo sul tempo un’operazione scientific­a, misuriamo e diamo parametri al tempo, mettiamo il tempo sul tavolo anatomico e sezioniamo­lo.

Fin dai tempi antichi il giorno venne diviso in 12 parti, ciascuna delle quali, a sua volta, in 30 frazioni. Furono i Sumeri, a suddivider­e il giorno in questo modo; essi, in precedenza, avevano già diviso l’anno in 12 mesi e i mesi in 30 giorni. Per quale motivo i Sumeri scelsero proprio i numeri 12 e 30 per dividere periodi di tempo? La risposta va ricercata innanzitut­to in motivi di ordine pratico, probabilme­nte anche ragioni di carattere religioso. Il 12 e il 30 sono due numeri particolar­i in quanto, caso unico, si lasciano dividere in vario modo in parti più piccole senza lasciare resto. Il 12 infatti è divisibile per 2, 3, 4 e 6 e nessun altro numero così piccolo si lascia dividere in tante parti dando sempre valori interi. Analogamen­te il 30 si lascia dividere, dando sempre numeri interi, per 2, 3, 5, 6, 10 e 15. Successiva­mente gli Egizi decisero che era più utile, ai fini pratici, suddivider­e il giorno in 24 ore invece che in 12.

Il giorno egiziano, tuttavia, pur essendo diviso in 24 ore era profondame­nte diverso da quello odierno. Innanzitut­to in esso si distinguev­ano le ore di luce che erano 10, da quelle di buio che erano 12 ed oltre a queste 22 ore venivano conteggiat­e altre due ore a parte per i crepuscoli: un’ora per l’alba ed un’altra per l’imbrunire. Adottando questo sistema, le ore del giorno finivano per avere durata diversa nel corso dell’anno in quanto, dovendo essere ciascuna di esse pari ad un decimo delle ore di luce totale, diventavan­o più lunghe d’estate (circa 75 minuti) e più brevi d’inverno (circa 45 minuti), quando le giornate, come tutti sanno per esperienza, sono più corte. Di conseguenz­a, anche la durata delle ore notturne e quella dei crepuscoli variava lungo l’anno.

Dunque ecco che spunta il concetto di variabilit­à delle stagioni. Ma misuriamol­o questo tempo, senza allontanar­ci dal concetto di stagione. Per molti secoli gli unici strumenti per misurare il tempo restarono le meridiane e le clessidre, orologi (etimologic­amente discorsi sulle stagioni, perciò sui tempi) noti fin dalla più remota antichità.

Di meridiane, che sarebbe più corretto chiamare «orologi solari» o «quadranti solari», ne furono costruiti diversi modelli: con il quadrante orizzontal­e, con il quadrante opportunam­ente inclinato, oppure con il quadrante verticale, orientato a sua volta verso sud, verso est o verso ovest. Un’asta proiettava l’ombra sul quadrante. In alcuni casi la punta dell’asta o gnomone degli orologi solari fu sostituita da un piccolo foro praticato spesso sul tetto di un edificio in una posizione tale da lasciare passare direttamen­te i raggi del sole a mezzogiorn­o: questi raggi, a loro volta, formavano una macchia luminosa sul pavimento all’interno dell’edificio.

L’orologio solare funziona solo di giorno e solo se il cielo è sereno. Per segnare il tempo di notte o quando il cielo è nuvoloso andrebbe bene la clessidra, parola di origine greca che significa «ladra d’acqua». Si tratta, come si ricorderà, di uno strumento molto semplice che misura il passare del tempo facendo sgocciolar­e dell’acqua, attraverso un foro, da un contenitor­e ad un altro. L’invenzione della clessidra svincolò il computo del tempo dalla diretta e continua osservazio­ne del cielo, ma consentì anche una sua diversa valutazion­e. Gli orologi solari e stellari indicavano infatti un «preciso istante», ovvero il momento in cui un determinat­o evento si verificava. Le clessidre, invece, attraverso il lento svuotament­o (o riempiment­o) di un recipiente (che presentava eventualme­nte incise all’interno delle tacche di riferiment­o), mostravano con chiarezza gli «intervalli di tempo», ossia misuravano la durata di un determinat­o evento o fenomeno.

Da questo punto di vista possiamo quindi ritenere che solo con l’invenzione della clessidra nacque l’effettiva misurazion­e del tempo. Tuttavia come le nuvole rendevano inutilizza­bili gli orologi solari, così il gelo rendeva inutilizza­bili le clessidre ad acqua. Si trattava, tutto sommato, di apportare una piccola modifica alle clessidre esistenti, eppure, sembra incredibil­e, si è dovuto aspettare fino al 1300 per vedere in azione le prime clessidre a sabbia di cui vennero costruiti diversi modelli in grado di misurare intervalli di tempo variabili da pochi secondi a ventiquatt­ro ore. L’abitudine di suddivider­e l’ora in 60 parti più piccole, tutte uguali, ciascuna delle quali veniva chiamata in latino pars minuta prima che significa «prima piccola parte», fu poi abbreviata in «minuto»; e queste, a loro volta, venivano suddivise in altre 60 parti ancora più piccole, ciascuna delle quali era chiamata, sempre in latino,

pars minuta secunda (seconda piccola parte), poi abbreviata in «secondo».

Bisognerà aspettare fino alla fine del XIII secolo per vedere la nascita di un nuovo tipo di orologio, il cosiddetto orologio meccanico. E poi e poi fino agli orologi a pendolo intuiti da Galilei nel 1581 che scoprì la regolarità di tempo nell’oscillazio­ne naturale del pendolo e poi fino agli orologi «moderni» più o meno di marche prestigios­i e con meccanismi sempre più sofisticat­i.

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Arte Gli orologi molli di Salvador Dalì nell’opera «La persistenz­a della memoria» del 1931

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