«Lascio un ateneo autonomo»
I 15 anni di Cipolletta: delega, scelta forte. «Cambi politici? Siamo blindati»
«L’ateneo è cresciuto, acquisendo grande reputazione internazionale». Innocenzo Cipolletta lascia la guida del cda dell’università di Trento dopo quindici anni: «La delega provinciale? Una scelta lungimirante» commenta.
Quattro rettori diversi: Massimo Egidi, Davide Bassi, Daria de Pretis, Paolo Collini. Due presidenti della Provincia: Lorenzo Dellai e Ugo Rossi. Quindici anni alla guida del cda dell’università di Trento, un lungo mandato che il prossimo luglio si esaurirà. Innocenzo Cipolletta è ormai prossimo all’adieu, ma il suo sarà un congedo senza rimpianti. «L’ateneo è cresciuto, acquisendo grande reputazione internazionale», ripete guardandosi indietro. La legge delega, che ha accompagnato nella sua intera genesi, resta l’intuizione che maggiormente lo soddisfa. Una formula che, oggi, Cipolletta suggerisce di esportare.
Presidente, quanto e come è cambiato l’ateneo dal 2003 a oggi?
«L’ateneo non è cambiato nella sua essenza, ma è cresciuto molto, sia nella reputazione internazionale sia nella capacità di attrarre risorse e profili di alto livello da tutto il mondo. Una crescita, questa, sviluppatasi grazie alle attività di ricerca e alle iniziative portate avanti negli ultimi anni. Penso alla creazione del filone delle neuroscienze, al Cibio, l’accordo con Microsoft. L’ateneo oggi è uno dei più riconosciuti, in Italia e all’estero».
Ci sono ancora margini di crescita? Nuove specializzazioni? Oppure consolidamento?
«Ci sono spazi di crescita innumerevoli. La strada è quella individuata dal nuovo statuto che si dà un compito: sostenere una formula di didattica incentrata sulla ricerca, l’una non può prescindere dall’altra e la nostra università su questo intende fare molto. Uno dei progetti contenuti nel piano strategico è proprio questo: migliorare la didattica e accentuarne il legame con la ricerca».
Durante l’inaugurazione dell’anno accademico ha parlato della situazione italiana e del sotto-finanziamento della ricerca rispetto alle soglie europee. Come se ne esce?
«Il quadro è difficile perché l’Italia ha un problema di finanza pubblica da cui non si può prescindere, ma al tempo stesso il finanziamento all’università è motore di crescita per il Paese. Penso, allora, all’esempio di Trento: con la delega e il nuovo statuto abbiamo stabilizzato ciò che un tempo era chiamato accordo di programma. Oggi non è più un accordo aleatorio, definito anno per anno e che finanziava attività non ripetibili. È viceversa uno schema pluriennale, quindi uno strumento che consente maggiore pianificazione, ed è inoltre un accordo che prevede risorse superiori a quelle previste dallo Stato. Ecco, allora, una strada da percorrere è anche questa: visto che nel Paese avanzano formule di amministrazione decentrata, qualcuno parla di federalismo, io dico che gli enti locali possono e debbono stare vicino alle università, per fornire le risorse che sono necessarie e che lo Stato a volte non può garantire».
Quindi esportare la formula delle delega?
«Sì, secondo me sì. L’idea con Lorenzo Dellai era questa: creare un primo esempio, una formula sperimentale per le altre università».
Lei ha partecipato all’intero percorso che ha portato alla delega. A distanza di qualche anno ritiene sia stata una mossa vincente?
«Sì, la delega è stata una scelta più che positiva ed è stata attuata con prudenza. Per fare lo statuto abbiamo discusso per due anni con tutta la comunità universitaria. Il documento che ne è uscito non è la perfezione assoluta, ma è uno strumento più che buono per un ateneo che si dà un piano strategico e ha chiari obiettivi».
Uno dei temi più dibattuti, durante la genesi della legge di attuazione e poi dello statuto, riguardava il ruolo della Provincia. Guardando al futuro: l’appartenenza politica degli inquilini di Piazza Dante può cambiare qualcosa per l’università oppure no?
«L’ente pubblico non ha nessun potere sull’università, che è finanziata dalla Provincia in virtù di leggi statali, quindi non si può modificare uno stanziamento. Si tratta per l’appunto di una delega. Dal punto di vista della gestione, quindi, l’università è corazzata. Anche la nomina del cda avviene sotto il controllo dei saggi, i quali hanno ben espletato il loro compito negli anni scorsi. Insomma: ci sono tutti gli strumenti affinché l’università mantenga la sua autonomia».
Al di là delle risorse ordinarie, la presidenza di Dellai ha segnato la nascita di attività aggiuntive, come Cimec, Cibio, Cosbi. Oggi è cambiato qualcosa?
«Ci sono fasi e fasi. Quando sono subentrato, con Dellai e con Massimo Egidi ci siamo dati il compito di far crescere internazionalmente l’ateneo e abbiamo messo tanta carne al fuoco. Queste iniziative andavano però consolidate e gli anni successivi sono andati quindi in questa direzione, non si deve quindi pensare a un cambio. A Dellai riconosco sempre grande coraggio, ma altrettanto importante è stata la presidenza di Rossi che ha saputo sviluppare un più forte rapporto con il territorio e con altri enti di ricerca, creando hub come Hit, per esempio».
Qual è il risultato che più la gratifica?
«Lo statuto. Sin dal principio ho pensato fosse una sfida che dovevamo affrontare. Oggi l’università è dotata di un assetto forte, che le consente di affrontare il futuro».
Ci sono ancora grandi margini. Didattica e ricerca devono essere unite. Con Dellai e Egidi abbiamo internazionalizzato l’ateneo, con Rossi l’abbiamo consolidato