Non servono profeti, ma politici preparati
C’è qualcuno convinto che il problema del Trentino sia il patrocinio al «Dolomiti Gay Pride». È lo stesso qualcuno che, qualche mese fa, disse di «guardare con attenzione» al progetto secessionista della Catalogna di Carles Puigdemont, e, recentissimamente, ha trovato «forti» le misure restrittive della libertà personale per una dirigente provinciale coinvolta in una serie di abusi.
Questo qualcuno non si è poi accorto che la dirigente in questione è salita agli onori (o, per meglio dire, ai disonori) della cronaca nazionale (che ne ha vivisezionato i comportamenti portando inaspettata linfa a chi non perde occasione per denigrare le prerogative dell’autonomia); non si è accorto che ciò che avrebbe dovuto aprire la «nuova era nella storia Catalogna» si è rivelata una buffonata (delle cui conseguenze, peraltro, la Catalogna stessa si sta ancora leccando le ferite); e non si è accorto nemmeno che il tema del patrocinio alla manifestazione dell’«orgoglio omosessuale» è una questione di carattere istituzionale che nulla ha a che vedere con la singola visione politica. Non avendo neppur lontanamente intuito il palpabile clima preelettorale (indimenticabile il «faremo cappotto»), lo stesso qualcuno ha pensato poi di archiviare la sconfitta del 4 marzo attraverso la proposta-minaccia di nuove «geometrie elettorali».
Assaggi dei danni provocati dal disorientamento che sta vivendo la guida della nostra Provincia, incapace di portare a termine i propri progetti, e impegnata al mantenimento in logica autoreferenziale di una visione superata della realtà. Un atteggiamento che genera fortissime tensioni nell’opinione pubblica, anche in quella più disincantata, che di tanto in tanto sfociano in episodi come quello appunto del 4 marzo, dove il Trentino per la prima volta nel dopoguerra si è allontanato dalla linea «filo-governativa».
Anche le pecore, se trattate da pecoroni, possono ribellarsi. Una lezione che il ceto politico non sembra voler apprendere, probabilmente perché ciò vorrebbe dire rispondere a domande come: dove vogliamo andare? Come vogliamo arrivarci? Come ci immaginiamo tra venti-trent’anni? Domande ritenute più inutili che difficili.
Meglio occuparsi di questioni più concrete, ad esempio della presidenza di Itas. Qui è la radice della crisi che fa scricchiolare l’impalcatura sui abbiamo retto il nostro benessere: la paura di affrontare il nuovo, l’attrazione verso la conservazione. Sviluppo e conservazione sono termini strutturalmente antitetici. Occorre non fare confusione tra necessario e sufficiente: dobbiamo conservare e mantenere il necessario (l’impalcatura), ma non dobbiamo avere il coraggio di sfidare in continuazione il sufficiente (il cambiamento).
Ai nostri dirigenti politici dobbiamo chiedere che facciano il loro mestiere (guidare la comunità verso terreni più fertili) e ridimensionino le loro mire di potere. Non abbiamo bisogno di profeti o di miracoli, ma che ci lascino lavorare in spazi liberi per coltivare le nostre ambizioni e i nostri talenti. La politica può fare tante cose, non tutte: quando ci prova diventa carattere caricaturale, qualche volta genera dei mostri. Alcuni li abbiamo già, altri sono alle porte.