Il peso delle parole
L’analisi Dal Verbo evangelico al «Mirmicoleone» Attraverso una Babilonia di stili si arriva a «glocale»
C’è chi studia le stelle, chi la fisica o le altre scienze. A me piacciono le parole, o meglio i suoni articolati in forma di parola che contengono una serie quasi illimitata di significati, di allusioni, di metafore che ne racchiudono altre come in un gioco di scatole cinesi. Parola, secondo la tradizione ebraica, mattone dell’universo, strumento creativo di quella creazione, mezzo per dare ordine al caos informe della materia universale. Dal latino ecclesiastico «parabola» è, in senso stretto, il paragone, l’allegoria, il confronto. Il linguaggio è il mezzo di comunicazione fra gli uomini, ma anche l’invocazione, la comunicazione con il divino.
Il mondo è l’effetto della Parola divina, «al principio era il Verbo» (Giovanni I, 1).
Il Verbo è chiamato nell’Islam «Kalimat Allah», parola di Dio o parola instauratrice.
Secondo Nietzsche il linguaggio è metafora del reale, illusione fondamentale, prima menzogna attraverso la quale il reale si trasforma in significabile: è l’inizio dell’essere, della vita, perciò il principio della morte.
Comunque, l’insieme delle parole, il linguaggio, è l’instaurazione di un rapporto, di una relazione.
Rapporto fra locutore e interlocutore, dialogo quindi.
In greco fra dialogo e diabolo esiste una radice comune e fra questi estremi si svolge la storia della parola: contrassegno, segno di riconoscimento o disaccordo e calunnia.
Segni che uniscono o che separano o meglio insegne, atte ad indicare all’altro che noi siamo e chi siamo. Parole identità? Dono delle lingue o confusione delle lingue?
La confusione seguita al tentativo di Babele segna la diversità delle lingue e perciò della tradizione primordiale. È la conseguenza di un annebbiamento dello spirito che impone il passaggio dalla unità alla molteplicità o forse il dono delle lingue è invece il ritorno allo stato centrale, sintetico, a partire dal quale le modalità della forma e dell’espressione appaiono come adattamenti necessari. Il dono delle lingue, conferite dallo Spirito Santo agli Apostoli, è la chiave dell’universalismo cristiano. I Rosacroce, si dice, le possedevano, come pure i Dodici Inviati del primo Adamo; secondo l’esoterismo ismaelita.
Poche sono oggi le parole che ci vengono offerte per stabilire una relazione.
Il più delle volte le parole sono gettate come oggetti senza peso né valore. Che ne è di modi di dire come dare la parola, essere di parola, non rimangiarsi le parole, avere l’ultima parola, avere una sola parola, di parola in parola, dire due parole, essere in parola con qualcuno, far parola di qualcosa, giocare sulle parole, macinar parole, metterci una buona parola, non è ancor detta l’ultima parola, parola d’ordine, parole d’oro, mezza parola, mezze parole, parole grosse, parole pesanti, pesare le parole. Ecco il peso delle parole. Oggi la parola è vento, vanità delle vanità. Sulle e con le parole si può procedere in due sensi: andarci dentro o cercare di venirne fuori.
Quando le parole, così come sono, non ci bastano più per definire un concetto, un’idea, proviamo a copularle. Ne risulta un bestiario ermafrodita dall’inquietante doppia o tripla o quadruplice natura.
È ben vero che già nel medioevo si usavano parole come «Mirmicoleone» o «Leoneformica» per designare il prodotto-figlio di un leone e di una formica, esseri che non esistono, ma possono essere detti, cioè creati, sfidando la logica aristotelica. Le scienze economiche, la sociologia, la psicoanalisi ci hanno insegnato ad accettare paradossi ed aporie e la lingua, buona buona, se ne è fatta mallevadrice.
Così probabilmente, alla fine degli anni novanta (ormai dello scorso secolo) è nata, per copia dell’americano la famiglia di parole del «glocale» e del «glocalismo», che sarebbe semplicistico interpretare come la definizione di fenomeni economici, sociali e politici che coniugano il globale e il locale. Questo semplicemente da dentro. Da fuori, poiché la complessità è un paradigma indiscusso del nostro tempo, si dovrà contorcerne il senso nel concetto di nuovo radicamento (riradicamento?) locale del globale e dell’economico nel sociale. Non troppo tempo fa Dürrenmatt intitolava un suo pezzo di teatro Tycoon, definito da Claudio Magris, in un editoriale del Corriere, «termine alquanto infelice, gergo da groppuscolo o di concerto rock» e che, a mio parere, ha qualche parentela con quel «Gott mit uns» che pretende di tirare Dio dalla propria parte. Un’espressione politico-religiosa, basata sul principio del cattolicesimo sociale e liberalismo, foriera di eventi sempre più complessi.
E chi riesce a estrapolare, dal loro significato originario, parole come «fare melina», oggi sdoganate dallo sport e usate dentro e fuori situazioni le più diverse. O la parola «forno» che al plurale (due forni) diventa espressione di giudizio politico. Certo pensando al forno, a noi gente comune viene in mente il fuoco. Entriamo ad esempio nella parola «fuoco» che il dizionario etimologico definisce come derivante dal latino focus, privo di connessioni indoeuropee evidenti. Ma a me pare che invece questa parola sia intessuta da un labile materiale sonoro, il crepitio di una fiamma. E qui ci vorrebbe una lunga disquisizione sulle parole che diventano forme partendo dai suoni, ma… Proviamo a uscirne: Sempre lo stesso vocabolario etimologico rimanda alla parola «atrium» – luogo del focolare, luogo attorno al quale si sviluppa il parlare.
Oggi si parla molto di sinergie dal greco «syn», insieme ed «ergon», opera azione.
Che poi si trasformi in allergia, ergastolo, chirurgo e taumaturgo non interessa a nessuno.
Ammaestrata dagli americani, che con la loro mobilissima lingua si possono inventare parole sandwich per esprimere i concetti più variegati, la parola va e nessuno la sa fermare. Cosa faranno i nostri linguisti che già con il congiuntivo hanno un bel po’ da tribolare?
A proposito di congiuntivo: uno spot televisivo che parla di serpenti e pesci sul congiuntivo proprio non ci prende. Abbiamo avuto domeniche senza macchina e ora ci godremo domeniche senza congiuntivi. E poi si dice che le parole non hanno peso.
Sento mormorare ammonimenti apocalittici, anche questi non nuovi perché ripresi dal dotto vocabolarista Anton Maria Salvini (16531729) che così si esprimeva (espresse?, si è espresso?): «Darassi una Babilonia di stili e di favelle orribili: ognuno farà testo nella lingua: innonderanno i solecismi: e si farà un gergo e un miscuglio barbarissimo».