Messner racconta l’«Holy Mountain» «Oriente sensibile»
Prima mondiale di Holy mountain L’alpinista in sala «Mi definisco uno storyteller»
The Holy Mountain. La montagna sacra. Questo il titolo della seconda fatica registica di Reinhold Messner presentato ieri in anteprima mondiale, e per la prima volta in concorso, alla 66^ edizione del Trento Film Festival presso la sala del Cinema Vittoria, con le prenotazioni al completo già da una settimana. Un anno dopo Still Alive – Dramma sul Monte
Kenya, Messner prosegue in quella che potremmo battezzare come una sua, personalissima, cinematografia di narrazione: eventi reali raccontati con tutti i mezzi che il cinema ha a disposizione, dalla ricostruzione di fiction alle interviste dei testimoni-chiave, dalla lettura di diari privati alla voce off «ufficiale» che racconta, in modalità National Geographic, il susseguirsi degli avvenimenti. Se nel primo lungometraggio la storia narrata era quella della scalata del Monte Kenya da parte di una coppia di amici e di un successivo, strepitoso salvataggio ad alta quota (siamo nel 1970), The Holy Mountain racconta invece della scalata alla vetta nepalese Ama Dablam (6812mt) compiuta nel 1979 da un gruppo di neozelandesi, a capo dei quali vi è Peter Hillary (figlio di Edmund il primo che scalò l’Everest nel ’53).
L’ascesa rischia di finire in tragedia, se non fosse per Messner e la sua squadra, in procinto di compiere la stessa risalita, che decide di intervenire in soccorso. Ma la storia è anche quella della montagna del titolo: è una delle vette considerate sacre dai nepalesi e da tutti gli orientamenti religiosi presenti nell’area (hiundu, gianisti, buddhisti): tanto che quando, nel 1961, una spedizione capitanata da Edmund Hillary (non presente sul posto) decise di salire senza autorizzazione scoppiò un caso diplomatico. In questo caso l’ascesa è autorizzata, ma i problemi sono altri: arrivati a metà parete un blocco di ghiaccio si stacca da un seracco più in alto travolgendo il gruppo dei quattro alpinisti neozelandesi. Uno di loro muore, gli altri possono solo scendere, molto lentamente.
Messner, che compare come esperto — interviene nella spiegazione degli eventi con delle interviste realizzate ad hoc — come protagonista della vicenda nelle immagini d’epoca, così come nella ricostruzione degli eventi impersonato da suo figlio, decide allora di intervenire insieme al medico della spedizione. Come detto, è l’alternarsi di riprese d’epoca, registrazioni originali, interviste ai protagonisti di oggi e di allora che rendono questo film una ricostruzione storica a tutto tondo e di grande valore: perché si fa testimonianza diretta ma anche racconto, narrazione. «Io mi definisco uno
storyteller, un narratore della montagna» racconta Messner alla platea in attesa di vedere il suo film «l’ho fatto con le serate alpinistiche, con i musei, e adesso con il cinema». «Con questo film — prosegue il re degli Ottomila — volevo raccontare della montagna sacra, della sua mitologia, e del diverso approccio che il mondo occidentale e quello orientale hanno nei confronti di questa e in generale delle montagne. Mentre da una parte c’è il disidero di conquista, dall’altra c’è, prima di tutto, il rispetto per il luogo dove danzano gli dei».
I grandi eventi cinematografici del Trento Film Festival non finiscono qui: rimanendo in territorio regionale ricordiamo la proiezione speciale di domani alle 21 (Supercinema Vittoria) di Moser – Scacco al
Tempo, per la regia di Nello Correale: il primo documentario sulla leggenda del ciclismo che da Palù di Giovo è diventato famoso in tutto il mondo per aver collezionato 273 trionfi, tra questi un Giro d’Italia, tre Roubaix di fila e un Campionato del Mondo, senza dimenticare il record dell’ora di Città del Messico.
Cultura In Oriente c’è il rispetto per il luogo degli dei