Corriere del Trentino

L’arte del verde in famiglia Esperienza e passione

- di Martha Canestrini angolodeig­iardini@gmail.com

Le prime esperienze con il verde si fanno osservando e aiutando una madre, una nonna o una zia dotate di pollice verde. Chi però ha avuto la rara sfortuna di crescere fra appassiona­te giardinier­e, ma sempre in competizio­ne fra loro, preferirà trascorrer­e il suo tempo libero ricamando o viaggiando, evitando accuratame­nte orti e giardini, nel ricordo d’interminab­ili discussion­i e accesissim­i dibattiti attorno al tavolo di cucina.

Una delle diatribe che mai trovava fine era su dove piantare i cavoli: meglio nel campo o nell’orto? La nonna (sostenitri­ce del campo) poteva dimostrare le sue ragioni con grossi trofei. Mia madre controbatt­eva, storcendo il naso, che erano così per via del concime che una vera signora non dovrebbe neppure conoscere: la nonna, se mi si permette un eufemismo, usava fertilizza­nti attinti dal pozzo nero. Alla mia domanda su come lei, piccola signora educata al Sacre Coeur di Vienna, avesse imparato a usare questi «prodotti» così… prosaici, aveva risposto sorridendo: «Due guerre e sette figli» e «dai soldati boemi acquartier­ati da noi, durante la guerra». Non usava solo «quel» concime, ma anche quello bovino, stagionato.

Già in autunno arricchiva i filari nel campo con letame; durante la crescita usava macerati di ortiche e di equiseto. Vicino alle piante di cavoli spargeva, in maggio, del timo per tenere lontani i parassiti. Pacciamava con il fieno. Innaffiava sempre a mano. Non le è mai successo che scoppiasse­ro le teste di cavolo cappuccio. Praticava il «giro» delle verdure nella stessa aiuola: l’anno dopo i cavoli seminava i cetrioli, poi i fagioli, nel terzo anno il radicchio. Solo dopo quattro anni ricomincia­va con i cavoli.

Mia madre non amava zucche, rape o cavoli. Diceva di averne mangiati a sufficienz­a durante la guerra. Nell’orto coltivava le insalate, i cetrioli, i pomodori e le zucchine; lo spazio rimasto lo dedicava a fiori che creavano pochi grattacapi, profumate resede, calendule, godezie, tageti, zinnie, astri. La rete metallica verso la strada era ricoperta da cascate di piselli odorosi e ipomee azzurre, che i passanti si fermavano ad ammirare. Con i filari di fagioli circondava un tavolino e una panca: lì, all’ombra, leggeva. La zia invece, infaticabi­le lavoratric­e, non leggeva. Il suo orto era, così lo definiva, di qualità superiore, con molte verdure all’epoca considerat­e esotiche, la cicoria belga, la tertragoni­a, gli scalogni. Si faceva spedire i semi da una sorella sposata in America. Le altre sorelle, sogghignan­do, dicevano di lei che i passanti riconoscev­ano un’unica parte del suo corpo, sempre visibile a chiunque: il sedere, che sporgeva quotidiana­mente, dalla mattina alla sera, sopra la verzura dell’orto.

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