L’arte del verde in famiglia Esperienza e passione
Le prime esperienze con il verde si fanno osservando e aiutando una madre, una nonna o una zia dotate di pollice verde. Chi però ha avuto la rara sfortuna di crescere fra appassionate giardiniere, ma sempre in competizione fra loro, preferirà trascorrere il suo tempo libero ricamando o viaggiando, evitando accuratamente orti e giardini, nel ricordo d’interminabili discussioni e accesissimi dibattiti attorno al tavolo di cucina.
Una delle diatribe che mai trovava fine era su dove piantare i cavoli: meglio nel campo o nell’orto? La nonna (sostenitrice del campo) poteva dimostrare le sue ragioni con grossi trofei. Mia madre controbatteva, storcendo il naso, che erano così per via del concime che una vera signora non dovrebbe neppure conoscere: la nonna, se mi si permette un eufemismo, usava fertilizzanti attinti dal pozzo nero. Alla mia domanda su come lei, piccola signora educata al Sacre Coeur di Vienna, avesse imparato a usare questi «prodotti» così… prosaici, aveva risposto sorridendo: «Due guerre e sette figli» e «dai soldati boemi acquartierati da noi, durante la guerra». Non usava solo «quel» concime, ma anche quello bovino, stagionato.
Già in autunno arricchiva i filari nel campo con letame; durante la crescita usava macerati di ortiche e di equiseto. Vicino alle piante di cavoli spargeva, in maggio, del timo per tenere lontani i parassiti. Pacciamava con il fieno. Innaffiava sempre a mano. Non le è mai successo che scoppiassero le teste di cavolo cappuccio. Praticava il «giro» delle verdure nella stessa aiuola: l’anno dopo i cavoli seminava i cetrioli, poi i fagioli, nel terzo anno il radicchio. Solo dopo quattro anni ricominciava con i cavoli.
Mia madre non amava zucche, rape o cavoli. Diceva di averne mangiati a sufficienza durante la guerra. Nell’orto coltivava le insalate, i cetrioli, i pomodori e le zucchine; lo spazio rimasto lo dedicava a fiori che creavano pochi grattacapi, profumate resede, calendule, godezie, tageti, zinnie, astri. La rete metallica verso la strada era ricoperta da cascate di piselli odorosi e ipomee azzurre, che i passanti si fermavano ad ammirare. Con i filari di fagioli circondava un tavolino e una panca: lì, all’ombra, leggeva. La zia invece, infaticabile lavoratrice, non leggeva. Il suo orto era, così lo definiva, di qualità superiore, con molte verdure all’epoca considerate esotiche, la cicoria belga, la tertragonia, gli scalogni. Si faceva spedire i semi da una sorella sposata in America. Le altre sorelle, sogghignando, dicevano di lei che i passanti riconoscevano un’unica parte del suo corpo, sempre visibile a chiunque: il sedere, che sporgeva quotidianamente, dalla mattina alla sera, sopra la verzura dell’orto.