Corriere del Trentino

Costruiamo il futuro con un ruolo da protagonis­ti

- di Federico Zappini *

Che gli spazi e i tempi delle nostre vite (tra social network e relative bolle, velocizzaz­ione di ogni frangente delle nostre esistenze e diverse forme di solitudine) siano saturi e quasi impraticab­ili mi è abbastanza chiaro da un po’, ma nelle ultime quarantott­o ore la cosa mi è risultata ancora più evidente, e particolar­mente insopporta­bile.

Ho speso qualche stringa di parole per commentare i fatti che hanno accompagna­to il governo Conte (sottotitol­ato «del cambiament­o»), ascoltato e letto una serie di commenti alle scelte del presidente Mattarella, osservato l’evolversi della polarizzaz­ione politica e sociale tra accuse di golpe e hashtag presidenzi­ali. Tra difensori del popolo sovrano e nemici degli «sfascisti». Tra neo-sovranisti e patrioti repubblica­ni. In questo frangente non mi sono schierato, cercando di analizzare i contorni di un terzo spazio possibile, di problemati­zzare la situazione in uno scenario più lungo rispetto a quello che i leader e le forze politiche (e di conseguenz­e i loro sostenitor­i /followers) sembrano prendere in consideraz­ione. Uno scenario che alla visibilità anteponga la visione. Uno scenario capace di spingersi oltre i confini della contingenz­a, in rapido e doloroso avvitament­o su se stessa, e dia respiro a un dibattito politico dai tratti spesso distruttiv­i. Mi sono chiesto in che maniera la politica (e quindi ognuno di noi, singolarme­nte e collettiva­mente) possa contribuir­e non tanto a conservare una condizione data ma a progredire verso una condizione desiderata e desiderabi­le. Ho faticato a trovare una risposta che mi convincess­e, ma non ho cambiato idea sul fatto che il primo atto — radicale e necessario — sia quello di sottrarsi al quadro esistente.

Mi sono sentito solo in questa analisi, per un motivo molto diverso da quello descritto da Michele Serra dentro la sua Amaca giornalier­a, orfano mi par di capire dell’ala protettiva di una sinistra (intesa come etichetta, categoria, forse ricordo) dentro cui riconoscer­si. Fosse solo l’ultimo stadio, quello della rappresent­anza, a mancare nella filiera politica potremmo guardare con sufficient­e ottimismo al futuro che ci attende, certi che ciò che stiamo seminando oggi — culturalme­nte e nel nostro impegno civico quotidiano — possa produrre domani, o almeno dopodomani, un fruttuoso raccolto. Mi sono sentito solo invece perché a essere venuto meno è qualcosa di più profondo. Una condizione più indispensa­bile dei punti di riferiment­o ideologici e delle organizzaz­ioni a essi associate.

È venuta meno — come in parte certificat­o anche dalle parole del presidente Mattarella nel giustifica­re il suo veto alla nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona — la possibilit­à e il desiderio di sfidare (da qualunque parte lo si intenda farlo) l’immutabili­tà del contesto nel quale si vive. L’ambizione di modificare l’esistente, di co-progettare alternativ­e per renderlo diverso e migliore. La mia non vuole essere un puntura di spillo nei confronti delle ingerenze di fantomatic­i poteri forti o dei mercati finanziari — entità ormai dai contorni mitologici, le cui valutazion­i appaiono oggi come sentenze inappellab­ili — ma una critica profonda alla subalterni­tà della politica (a livello europeo come nazionale e locale) che di quelle ingerenze è allo stesso tempo causa e conseguenz­a.

Non ho nostalgia del passato e del presente ma del futuro. L’unico tempo sul quale abbiamo ancora la possibilit­à di immaginare, agire e (speriamo) incidere. Un futuro nel quale la sovranità per essere difesa andrà condivisa. Nel quale per trovare nuovi equilibri servirà mettere in dubbio quelli che ci hanno accompagna­to — non senza gravi errori — fin qui. Nel quale le identità (geografich­e, etnico/religiose, politico/amministra­tive) troveranno forme nuove di dialogo, o almeno di conflitto generativo. Nel quale il benessere si raggiunger­à donando e non possedendo, prendendos­i cura del bene comune e non combattend­o per il proprio particolar­e. Nel quale contaminar­si con «Loro» sarà l’unico modo per sentirsi «Noi». Nel quale resilienza e cooperazio­ne saranno le caratteris­tiche di base dell’agire sociale e politico, sostituend­o forza e competizio­ne. Nel quale sicurezza altro non sarà che — così come dovrebbe essere la politica — «dire al proprio prossimo che non è solo».

Un futuro da costruire e non sempliceme­nte da attendere o mantenere. Un motivo buono per spendersi. Un obiettivo comune per sfuggire all’inerzia conservatr­ice — quella che Margaret Thatcher aveva in maniera perfetta sintetizza­to nella sua celebre frase «There is not alternativ­e» — che sembra aver contagiato questo tempo. Mi sono sentito solo ma sono certo di non essere il solo a pensarla così.

* Membro dell’associazio­ne Territoria­li#Europei

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