Morto Panato, un burbero dal cuore d’oro
Rensi: «Quindici anni sempre insieme». Faustini: mai invadente
Fino all’ultimo sul campo con il suo obiettivo e il baffo d’ordinanza. Occhio critico, burbero gentile, si è spento ieri a 68 anni Dino Panato, per 40 anni i suoi scatti hanno raccontato il Trentino.
Difficile che qualcuno, TRENTO a Trento, non avesse incrociato il suo obiettivo, il suo baffo d’ordinanza e la sigaretta accesa. Ha raccontato per quarant’anni la provincia, per quattro volte le Olimpiadi e con centinaia di scatti è entrato negli occhi delle persone fissando l’attimo del gol nella domenica del pallone. Purtroppo ieri ha riposto il suo obiettivo Dino Panato, fotografo dapprima dell’Alto Adige (poi diventato Trentino) e di alcune grandi agenzie internazionali (prima Grazia Neri e ora Getty Images), un libro di storia del fotogiornalismo regionale. Si è spento a 68 anni dopo una malattia, ma fino all’ultimo sul campo come si addice ai grandi. Lascia la moglie Franca e i figli (Daniele, anche lui fotografo, e Matteo).
«Ho perso un amico con il quale ho vissuto la quotidianità del mestiere negli ultimi 15 anni — ricorda Matteo Rensi, complice di Panato e fotografo del Corriere del Trentino — Un grande lavoratore, sempre in prima linea con una famiglia speciale che lo ha sempre sostenuto nelle lunghe assenze. Credo sia uno dei pochi giornalisti italiani e l’unico in regione ad avere seguito quattro olimpiadi, da Atlanta ‘96 in poi. Il calcio era indubbiamente la sua passione e la sua specializzazione. Ma è stato anche un estremo difensore della professione: ricordo i litigi con i giornalisti che facevano foto con i cellulari indebolendo il nostro ruolo. Mi mancheranno le chiacchierate con lui, la nostra quotidianità. Ci siamo sempre aiutati con grande rispetto senza mai una gelosia».
Il direttore del Trentino, Alberto Faustini, ricorda che Dino compiva il suo dovere «senza mai essere invadente. Con rispetto. Per le persone. Per il suo lavoro. Un lavoro che ha amato fino all’ultimo. Nei giorni di gioia come in quelli più complicati. Quando fare una foto significava entrare in una vita, raccontare una morte, una carezza non data». Poi aggiunge: «In oltre trent’anni ha raccontato come siamo cambiati. Talvolta con un velo di malinconia e di nostalgia per come è cambiato il mestiere, per come è cambiata la società. Ma sempre con la pulizia di occhi capaci fino all’ultimo di meravigliarsi, di alzarsi oltre l’orizzonte del banale per scoprire la bellezza del particolare. Gli siamo tutti grati di quello che ci ha detto e insegnato».