L’acqua rabbiosa Quando la natura si ribella all’uomo
Le immagini di Moena richiamano scenari mitici Dalla caduta di Eridano alla Weltchronik di Schedel
Proprio in questi giorni, con l’aprirsi dei mesi estivi è arrivato il maltempo. Tanta pioggia e grandine. E poi ancora: temporali con fulmini e tuoni, spesso accompagnati da tanto e vento. Fenomeni che hanno ferito il territorio, dando origine a smottamenti e alluvioni di fango. Catastrofi insomma.
La Val di Fassa, a Moena, è accaduto il peggio. E io, che non sono lontana, geograficamente, da quei luoghi sono stata tempestata di telefonate, anche affettuose. Tutti mi chiedevano notizie.
«Una catastrofe senza precedenti, o un temporale importante, come i tanti che arrivano qui da noi in estate?» mi si chiedeva.
«Tosta — ho detto — davvero tosta» per Moena, ma meno per l’alta valle e poi lodi, davvero lodi ai moenesi, ai pompieri, al soccorso e alla prevenzione civile e a tutti quelli che si sono rimboccati le maniche per ridar velocemente vita alla loro cara cittadina.
Basta cronaca. Pensavo che «catastrofe», (parola che deriva dal greco katastropheion, rivoltare, rovesciare), potesse avere un qualche senso per il poi, che sarebbe stato il caso di pensarci, di ragionarci, di scrivere.
Ogni volta che avvengono questi sconvolgimenti se ne sono scritte di pagine, se ne sono viste di immagini terribili e toccanti.
Parole, fiumi di parole, scomodando tutti e tutto, dando colpa a tutti e a tutto («Piove, governo ladro!»), parlando sempre di mancanza di prevenzioni, di attenzioni, per rifugiarsi nel destino crudele, per rincantucciarsi nei miti, facendo delle citazioni di memorie senza un futuro.
Qui in Val di Fassa è straripato il rio Costalunga. L’acqua scendeva rabbiosa dal passo di Carezza e dai versanti orientali del Latemar, luoghi mitici.
Sul mito si è detto poco, poco sulle previsioni, antichi proverbi e così via. (Che Moena derivi da moiena, palude?).
Siamo una piccola valle con piccoli fiumi, ma se straripa il Po ritorna il mito di Eridano, il fiume figlio di Oceano e di Teti (che oltre al Po è stato accomunato al Rodano, al Nilo e al Gange), il fiume nel quale Fetonte si «intartarò» sbalzato dal carro e dove le ninfe piansero lacrime d’ambra.
Miti sfuggiti ai riti come il genio dalla bottiglia. Perché il rito è vincolato al gesto e il gesto umano è limitato dalla brevità della memoria. E a suscitare la memoria sono le immagini terribili. Che fare ora oltre che piangere, battersi il petto, seppellire, bruciare, pregare, maledire e poi di nuovo fare, mangiare, perché bisogna pur vivere e, possibilmente, ricominciare e sorridere.
Certo sulle catastrofi, naturali o provocate, si è scritto molto, anche in antichità. Per non parlare della Bibbia, che fa un lungo elenco di catastrofi: il Diluvio Universale, le carestie, le piaghe d’Egitto. E poi ancora: le malattie e le guerre — possiamo arrivare tranquillamente ad Omero e a tutti i poemi epici, che senza le catastrofi non esisterebbero — per non citare buona parte della letteratura che parla di pesti, catastrofi, rapimenti e delitti e questo dall’antichità ai giorni nostri.
«In principio era la catastrofe» si potrebbe sintetizzare. E dalle catastrofi nascono le storie.
Poi venne Licostene che iniziò a descrivere le catastrofi del mondo. Schedel con la sua Weltchronik ( Norimberga 1493) — il primo vero mezzo scritto d’informazione — dedica capitoli alle catastrofi naturali come la grandine, le inondazioni, i fuochi e perfino un «razzo» ante litteram.
Poi ci sono i mostri che nascono qui e là sulla terra abitata, più scherzi di natura, miracoli, meraviglie, che catastrofi, ma che segnano, comunque, le bizzarrie di una natura libera, una pluralità di mondi, la vita cosmica, o per il volgo, l’ira di Dio.
Comunque la si voglia mettere, la colpa è sempre più o meno degli uomini, rei di nefandezze, di insubordinazioni, o di non capire. Di non saper ascoltare le voci, di non saper leggere fra le righe dell’ieri e dell’oggi.
In questo tempo contratto della vita che ci è data (e che ci piacerebbe allungare ) e dilatato dai grandi mezzi di comunicazione, dalla realtà virtuale — l’uomo si sente schiacciato ad un piccolo stupido privato che va dall’alba alla sera, appeso al salvagente del fatto che le cose accadono ad altri, non a noi.
E le catastrofi? Ci sono sempre state: passeranno. Via in un colpo di spugna! Via le cose che fanno male o che creano lacerazioni nella coscienza collettiva.
Spazio alla speranza. Già i giornali di oggi dicono che domani il tempo cambierà, che, lentamente si sta tornando alla normalità.
Forse ci si dovrebbe chiedere cosa è la normalità.