Peggy Guggenheim portò l’arte a Merano
La storia Erano gli anni ’50 e Guggenheim si innamorò dell’Italia Dopo Venezia l’Alto Adige, dove portò opere di Pollock e Ernst
Sono passati 70 anni dal «colpo di fulmine» che fece innamorare Peggy Guggenheim di Venezia. Era il 1948 quando alla XXIV Biennale venne esposta la sua collezione, un evento che ebbe straordinari e positivi «effetti collaterali». Negli ultimi mesi dello stesso anno, la collezionista newyorchese acquistò Palazzo Venier dei Leoni dove dimorò per i successivi 30 anni, dove oggi è ospitata la sua straordinaria collezione e dove, per celebrare questo anniversario, fino al 25 novembre è ospitata la mostra curata da Gražina Subelyte dal titolo 1948: la Biennale di Peggy Guggenheim.
Ma tra gli effetti collaterali di questo «colpo di fulmine» ve ne è uno, poco noto, che riguarda Merano e il suo Wunderbar. Come ricordato da Luigi Serravalli nel suo A Merano in attesa di Ezra Pound (Curcu & Genovese 2002): «Nel 1948 o giù di lì, con l’amico Emilio Dall’Oglio — lui aveva avuto l’idea e lui era il boss — mandavamo avanti questa Galleria del Corso e mostravamo i tesori della Collezione Guggenheim». A essere precisi, la Galleria del Corso era il nome alquanto pretenzioso con cui era stata battezzata una sala del Wunderbar che il proprietario aveva concesso per le mostre di pittura, mentre Peggy Guggenheim giunse a Merano solo nei primi anni ‘50. Ma, detto questo, il livello degli artisti in mostra fu elevatissimo, bastino tre nomi: Renato Guttuso, Max Ernst e Jackson Pollock.
Come sottolineato da Serravalli, questa volta sulle colonne della Nuova Rivista Europea: «La Galleria era una saletta tre per tre con un soffitto tutto nero, una bomboniera vera e propria. Peggy Guggenheim viene a Lana per un weekend, passa dalla Galleria, conosce gli animatori, diventa amica e porta a Merano mostre straordinarie: Pollock, Max Ernst e Leonore Fini. Queste mostre già allora di notevole valore, venivano combinate con la massima semplicità e reciproca fiducia al bar, mentre Peggy fumava e beveva in continuazione».
Fuor di aneddotica, questo rimane l’aspetto più interessante dell’esperienza della Galleria del Corso: la facilità con cui l’arte contemporanea veniva esposta e diffusa. Il tutto, grazie non solo al mecenatismo, ma a passioni genuine e forti che non necessitavano di
budget, coperture istituzionali e pratiche burocratiche infinite. Come scrive Serravalli: «Non si facevano affari. Cioè non si vedeva un ghello».
Un periodo che Tiziano Rosani, uno dei curatori del Palais Mamming Museum, descrive così: «Le mostre organizzate dalla Galleria del Corso furono attività meritoria e la stessa Azienda di soggiorno di Merano, in successive relazioni, non solo le lodava apertamente ma, in virtù del successo riscontrato, le poneva a modello del proprio agire in ambito culturale. E infatti, nella seconda metà degli anni Cinquanta, le attività espositive organizzate al Kurhaus sotto l’egida dell’Azienda di soggiorno si rifacevano programmaticamente alla precedente, breve stagione della Galleria del Corso. Non solo: per le proprie mostre l’Azienda coinvolse alcuni dei protagonisti della precedente stagione, fra cui il pittore Emilio Dall’Oglio e il critico Luigi Serravalli. Definirei la breve stagione della Galleria del Corso pionierismo nel senso migliore del termine. Era attività animata da entusiasmo e al contempo da ricerca della qualità, fuori dai localismi, giustamente ambiziosa. Fondandosi sulla libera iniziativa di privati cittadini, affrontando diverse problematiche e con pochi mezzi a disposizione, si seppe tracciare un percorso innovativo in una Merano alla ricerca di nuove visioni e nuove occasioni».
Purtroppo, le informazioni riguardanti la collaborazione tra Peggy Guggenheim e la Galleria del Corso sono piuttosto scarse. Serravalli, sempre nel volume edito da Curcu e Genovese ricorda come Peggy Guggenheim fosse sempre al Wunderbar: «Con la sua pelliccia di breitschwanz, ballava con Emilio, aveva conosciuto il dottor Fiume, collezionista locale. Molto democratica, sempre intelligente, personale, la incontravo quando potevo». Le cronache locali dell’epoca, invece, riportano solo scarne notizie da cui si può ricavare che le opere di Ernst e Pollock vennero esposte nel 1952, mentre l’anno precedente erano state ospitate quelle di Pegeen Vail Guggenheim, figlia di Peggy.
Per quel che riguarda gli effetti sul pubblico meranese dei primi anni ’50 non resta che rifarsi alle parole di Serravalli: «I Pollock alla Galleria del Corso non li capiva nessuno. In euro attuali c’era un valore di milioni (...). I quadri erano lì, del tutto astratti: I meranesi lasciavano per qualche minuto la sala del Wunderbar, entravano, guardavano, scuotevano la testa e se ne andavano».
Galleria Passò per caso dal locale del Corso e cominciò a proporre mostre