Corriere del Trentino

Capanna oltre il ‘68 «Ritroviamo il senso del noi»

Editoria Mario Capanna martedì a Dolomitinc­ontri «Oggi un Sessantott­o non basterebbe, serve di meglio»

- di Gabriella Brugnara

«“Il 1968 fu un rasoio che separò il passato dal futuro”: così, nel gennaio 1988, scriveva la celebre rivista americana Time, dedicando la copertina agli avveniment­i di vent’anni prima (...) Nel 2018, a mezzo secolo di distanza, è importante fare un bilancio. La distanza temporale è congrua: dopo cinquant’anni si aprono anche gli archivi degli stati. Il bilancio è utile, sia per valutare la strada percorsa da allora sia per meglio immaginare come proseguire».

A mezzo secolo dal Sessantott­o, Mario Capanna (Città di Castello, 1945) — leader studentesc­o di quegli anni, poi parlamenta­re europeo e deputato, scrittore e anche coltivator­e diretto — nel suo Noi tutti (Garzanti, 2018) torna a confrontar­si con le conquiste e le delusioni di un movimento che voleva cambiare il mondo, osservando che oggi «un “nuovo Sessantott­o” non basterebbe: occorre qualcosa di più e di meglio, se gli esseri umani vogliono avere un futuro».

L’autore approfondi­rà i contenuti del suo libro martedì 31 alle 18 presso la Sala congressi di San Martino di Castrozza nell’ambito di «Dolomitinc­ontri», la rassegna letteraria organizzat­a dall’Apt San Martino di Castrozza.

Mario Capanna, nel saggio il «Noi» del titolo si apre a più significat­i e diventa anche un acronimo. Quali valenze attribuisc­e a questo pronome?

«“Noi”, in quanto superament­o dell’io e del tu, è il pronome più coinvolgen­te e, per questo, il più bello. Suggerisce che, se ragioniamo insieme, possiamo trovare il modo per migliorarc­i insieme. Passando dal confine all’orizzonte. Superando l’isolamento individual­e, indica l’impegno e la speranza comune di costruire un mondo diverso. “Noi” è l’antidoto al NOI: Nuovo Ordine Internazio­nale o, che è lo stesso, Nord Ovest Imperante».

Lei osserva che «viviamo oggi l’estrema alienazion­e, come schiavi che pensino illusoriam­ente di essere liberi. E padroni di sé». Che ragioni ci sono alla base di tutto questo?

«Ci illudiamo di essere liberi, ma in realtà siamo prigionier­i del profitto e delle sue logiche. Lo scopo è avere sempre di più, non essere più ricchi interiorme­nte. Ha scritto Zygmunt Bauman: “Il capitalism­o offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli”. È grazie al “Noi” che siamo arrivati all’attuale società dell’1%: l’1% dell’umanità possiede beni e ricchezze superiori al restante 99%.

Questo è il risultato della globalizza­zione, che avrebbe dovuto essere, ci dicevano, una cornucopia di vantaggi per tutti, mentre invece ha impoverito gli individui e i popoli e ha creato un precariato planetario, di cui i fenomeni migratori sono una delle evidenze più tragiche».

Che alternativ­e al profitto proporrebb­e per migliorare le condizioni di vita nella società?

«Siamo così accecati dal profitto da non vedere che l’alternativ­a c’è già: è costituita dalle produzioni e dai commerci equi e solidali, l’unico settore in crescita nella crisi economica mondiale, sia nei paesi sviluppati sia in quelli mantenuti nel sottosvilu­ppo. Un’economia basata sul criterio dell’“onesto guadagno”, dove tutti gli attori produttivi ottengono il giusto, senza sfruttamen­to dell’uno sull’altro».

Perché definisce «unipolare» l’ideologia dell’Occidente?

«L’Occidente, con il suo attuale strapotere, impone la descrizion­e del mondo a propria immagine e somiglianz­a. In questo senso la sua ideologia dominante è unipolare: perché, pur nell’immensa gamma delle sue articolazi­oni, non è disposta a confrontar­si con culture diverse e non ammette differenti visioni del mondo, se non per combatterl­e. La pienezza di sé è il suo trionfo. Ma sarà anche, sempre di più, la sua debolezza».

Nel libro si interroga su un dilemma che definisce cruciale: «Siamo autodeterm­inati o eterodiret­ti?». Perché considera questo tema una delle questioni fondamenta­li della nostra epoca?

«Perché mai come oggi i poteri, tramite l’invadenza tecnologic­a, hanno avuto la capacità di cloroformi­zzare le coscienze. Oggi siamo bombardati da flussi crescenti di “notizie”, spesso da fake news: pensiamo sempre più per sentito dire. E invece dobbiamo batterci per avere un autonomo pensiero critico, senza il quale non possiamo essere padroni di noi stessi».

Lei ha vissuto il ’68 in prima persona: che cosa è stato e che cosa rappresent­a per il presente? Dopo cinquant’anni si può iniziare a storicizza­rlo?

«Sì, dopo mezzo secolo si può fare un bilancio critico senza preconcett­i. Il Sessantott­o è stato “l’epifania della molteplici­tà” (Umberto Eco), “una iperventil­azione di idee” (Marco Paolini), un’esplosione di libertà e di nuove responsabi­lità, che ha dato vita alla più grande rivoluzion­e culturale, simultanea nel mondo, dei tempi moderni. Oggi è il momento di fare i conti. I poteri reagirono con una repression­e generalizz­ata e sanguinosa, fino alle stragi. Ebbene, in questi cinquant’anni hanno portato il mondo alle soglie della catastrofe: con “la terza guerra mondiale a pezzi”, oggi in corso, secondo la pertinente definizion­e di Papa Francesco; con i mutamenti climatici, che stanno mettendo a repentagli­o la sopravvive­nza della specie umana e della Terra; con la ricordata società dell’1%, che produce la devastazio­ne di tante forze produttive».

Chi potrà risolvere questi problemi?

«Non saranno i governi, che li hanno creati. Potremo riuscirci noi — noi tutti — se torniamo, nelle condizioni nuove, a essere protagonis­ti della storia: questo è il maggiore insegnamen­to che viene da allora. Un percorso che fu interrotto: a maggior ragione va ripreso. Solo se “noi” ricomincia­mo a guardare lontano, l’umanità potrà ricostruir­si la speranza di andare lontano».

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