Capanna oltre il ‘68 «Ritroviamo il senso del noi»
Editoria Mario Capanna martedì a Dolomitincontri «Oggi un Sessantotto non basterebbe, serve di meglio»
«“Il 1968 fu un rasoio che separò il passato dal futuro”: così, nel gennaio 1988, scriveva la celebre rivista americana Time, dedicando la copertina agli avvenimenti di vent’anni prima (...) Nel 2018, a mezzo secolo di distanza, è importante fare un bilancio. La distanza temporale è congrua: dopo cinquant’anni si aprono anche gli archivi degli stati. Il bilancio è utile, sia per valutare la strada percorsa da allora sia per meglio immaginare come proseguire».
A mezzo secolo dal Sessantotto, Mario Capanna (Città di Castello, 1945) — leader studentesco di quegli anni, poi parlamentare europeo e deputato, scrittore e anche coltivatore diretto — nel suo Noi tutti (Garzanti, 2018) torna a confrontarsi con le conquiste e le delusioni di un movimento che voleva cambiare il mondo, osservando che oggi «un “nuovo Sessantotto” non basterebbe: occorre qualcosa di più e di meglio, se gli esseri umani vogliono avere un futuro».
L’autore approfondirà i contenuti del suo libro martedì 31 alle 18 presso la Sala congressi di San Martino di Castrozza nell’ambito di «Dolomitincontri», la rassegna letteraria organizzata dall’Apt San Martino di Castrozza.
Mario Capanna, nel saggio il «Noi» del titolo si apre a più significati e diventa anche un acronimo. Quali valenze attribuisce a questo pronome?
«“Noi”, in quanto superamento dell’io e del tu, è il pronome più coinvolgente e, per questo, il più bello. Suggerisce che, se ragioniamo insieme, possiamo trovare il modo per migliorarci insieme. Passando dal confine all’orizzonte. Superando l’isolamento individuale, indica l’impegno e la speranza comune di costruire un mondo diverso. “Noi” è l’antidoto al NOI: Nuovo Ordine Internazionale o, che è lo stesso, Nord Ovest Imperante».
Lei osserva che «viviamo oggi l’estrema alienazione, come schiavi che pensino illusoriamente di essere liberi. E padroni di sé». Che ragioni ci sono alla base di tutto questo?
«Ci illudiamo di essere liberi, ma in realtà siamo prigionieri del profitto e delle sue logiche. Lo scopo è avere sempre di più, non essere più ricchi interiormente. Ha scritto Zygmunt Bauman: “Il capitalismo offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli”. È grazie al “Noi” che siamo arrivati all’attuale società dell’1%: l’1% dell’umanità possiede beni e ricchezze superiori al restante 99%.
Questo è il risultato della globalizzazione, che avrebbe dovuto essere, ci dicevano, una cornucopia di vantaggi per tutti, mentre invece ha impoverito gli individui e i popoli e ha creato un precariato planetario, di cui i fenomeni migratori sono una delle evidenze più tragiche».
Che alternative al profitto proporrebbe per migliorare le condizioni di vita nella società?
«Siamo così accecati dal profitto da non vedere che l’alternativa c’è già: è costituita dalle produzioni e dai commerci equi e solidali, l’unico settore in crescita nella crisi economica mondiale, sia nei paesi sviluppati sia in quelli mantenuti nel sottosviluppo. Un’economia basata sul criterio dell’“onesto guadagno”, dove tutti gli attori produttivi ottengono il giusto, senza sfruttamento dell’uno sull’altro».
Perché definisce «unipolare» l’ideologia dell’Occidente?
«L’Occidente, con il suo attuale strapotere, impone la descrizione del mondo a propria immagine e somiglianza. In questo senso la sua ideologia dominante è unipolare: perché, pur nell’immensa gamma delle sue articolazioni, non è disposta a confrontarsi con culture diverse e non ammette differenti visioni del mondo, se non per combatterle. La pienezza di sé è il suo trionfo. Ma sarà anche, sempre di più, la sua debolezza».
Nel libro si interroga su un dilemma che definisce cruciale: «Siamo autodeterminati o eterodiretti?». Perché considera questo tema una delle questioni fondamentali della nostra epoca?
«Perché mai come oggi i poteri, tramite l’invadenza tecnologica, hanno avuto la capacità di cloroformizzare le coscienze. Oggi siamo bombardati da flussi crescenti di “notizie”, spesso da fake news: pensiamo sempre più per sentito dire. E invece dobbiamo batterci per avere un autonomo pensiero critico, senza il quale non possiamo essere padroni di noi stessi».
Lei ha vissuto il ’68 in prima persona: che cosa è stato e che cosa rappresenta per il presente? Dopo cinquant’anni si può iniziare a storicizzarlo?
«Sì, dopo mezzo secolo si può fare un bilancio critico senza preconcetti. Il Sessantotto è stato “l’epifania della molteplicità” (Umberto Eco), “una iperventilazione di idee” (Marco Paolini), un’esplosione di libertà e di nuove responsabilità, che ha dato vita alla più grande rivoluzione culturale, simultanea nel mondo, dei tempi moderni. Oggi è il momento di fare i conti. I poteri reagirono con una repressione generalizzata e sanguinosa, fino alle stragi. Ebbene, in questi cinquant’anni hanno portato il mondo alle soglie della catastrofe: con “la terza guerra mondiale a pezzi”, oggi in corso, secondo la pertinente definizione di Papa Francesco; con i mutamenti climatici, che stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della specie umana e della Terra; con la ricordata società dell’1%, che produce la devastazione di tante forze produttive».
Chi potrà risolvere questi problemi?
«Non saranno i governi, che li hanno creati. Potremo riuscirci noi — noi tutti — se torniamo, nelle condizioni nuove, a essere protagonisti della storia: questo è il maggiore insegnamento che viene da allora. Un percorso che fu interrotto: a maggior ragione va ripreso. Solo se “noi” ricominciamo a guardare lontano, l’umanità potrà ricostruirsi la speranza di andare lontano».