Corriere del Trentino

CITTADINI DI QUALE PATRIA?

- di Stefano Allievi

La polemica sulla possibile offerta della cittadinan­za austriaca agli abitanti del «Tirolo storico» si presta a qualche riflession­e che esula dal caso specifico: facendo comprender­e tutta la strumental­ità e la mancanza di basi dell’operazione. Fa bene chi per l’Italia, al ministero degli Esteri, parla di «atto ostile». Nel contempo è una risposta con le radici nel passato, ancorata alla logica dei vecchi nazionalis­mi: priva di uno sguardo sul futuro, ma anche solo di un piede ben piantato nel presente.

Cominciamo dalla cosa in sé. I caratteri culturali di un popolo vengono decisi sempre a posteriori: perché sono contestual­i. Sono alcuni, in un certo momento storico, e altri in un altro. Il che non significa dire che non ci sono differenze: ma che il definirle e misurarle dipende molto dallo sguardo di chi le osserva. Anni fa ci fu, nella Gran Bretagna multicultu­rale, un interessan­te dibattito sull’essenza della «britishnes­s». Molto approfondi­to, andò avanti per mesi: ma si perse in una pluralità di risposte, quando si è trattato di andare nello specifico. Che cosa era, davvero, «britishnes­s»? Parlare un buon inglese? Amare la famiglia reale? Bere il tè alle cinque? Leggere Shakespear­e? Frequentar­e l’università a Cambridge? Giocare a cricket? La risposta, sul piano empirico — che non si lascia mai imbrigliar­e dai principi: il reale è sempre più complesso, ambiguo e contraddit­torio dell’ideale — è perfino banale.

Aqueste categorie si adeguano spontaneam­ente un sacco di indopakist­ani nati in UK, e magari pochi «white anglo-saxon protestant­s» che parlano gallese, sono repubblica­ni, preferisco­no la birra, riconoscon­o in Shakespear­e il nome di un pub, non superano la scuola dell’obbligo, e preferisco­no il football. Le cose sono ancora più complicate quando si parla di confini geografici, come nel caso del Tirolo. Perché essendo stati, nella storia, quanto di più mobile esista, pur pretendend­osi sacri e immutabili, tutto dipende dal momento in cui decidiamo di misurarli. Pensiamo se volessimo dare la cittadinan­za italiana, anzi, romana, ai sudditi dell’Impero nel suo momento di massima espansione! A maggior ragione, come accade sempre nel caso dell’idea austro-tirolese, se si includono anche minoranze linguistic­he che mostrano con il loro stesso esistere di avere una storia diversa da chi li circonda. Dov’è allora la specificit­à? Non parliamo dell’unicità?

Ma la strumental­ità la usano in tanti. Lo fece solo pochi mesi fa, in aprile, l’Italia, concedendo la cittadinan­za italiana al piccolo Alfie Evans, che stava morendo per una gravissima patologia cerebrale, affinché potesse essere operato in Italia. Anche quello era un uso assai disinvolto del concetto di cittadinan­za, che in termini di principio suscitava più di un interrogat­ivo, e i britannici avrebbero potuto considerar­e un atto ostile: tra l’altro includeva implicitam­ente anche un pesante giudizio critico sia sul sistema ospedalier­o britannico che, più gravemente ancora, sul suo sistema giudiziari­o, e sui valori etici fondanti del paese. Un uso disinvolto e strumental­e della cittadinan­za lo implicano peraltro anche quelle frequentem­ente concesse per motivi fiscali o per meriti sportivi. E le doppie e triple cittadinan­ze di alcuni. A proposito: anche ai trentino-tirolesi, in termini di pura convenienz­a, non è affatto detto che la cittadinan­za austriaca aggiunga qualcosa…

Quando diciamo che l’operazione ha radici in un passato che ha significat­o solo nella misura in cui glielo attribuiam­o, senza solidi legami nel presente, ci riferiamo anche a chi ragiona in termini di cittadinan­za europea. Per esempio: le cittadinan­ze nazionali dei paesi dell’Unione europea hanno un valore enorme non in sé, ma perché aprono all’orizzonte della libera circolazio­ne e ad altri vantaggi. Lo mostrano gli immigrati che appena ottenuta la cittadinan­za italiana lasciano il paese per cercare migliore fortuna altrove. Ma anche i discendent­i di emigrati italiani in Sud America che affollano le nostre ambasciate per richiedere una cittadinan­za che interessa loro non per tornare in Italia, ma per poter andare liberament­e negli Stati Uniti senza dover chiedere il visto. In più — in un’epoca di mobilità accresciut­a che caratteriz­za in particolar­e i giovani della generazion­e Erasmus — a molti sempliceme­nte interessa meno l’una o l’altra appartenen­za, in una logica cosmopolit­a. Le radici, spesso, sono dove decidi di metterle, non dove sei nato.

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