Corriere del Trentino

Trentino Alto Adige, boom di contratti precari

Studio della Cgia: il 18,1% dei dipendenti a termine nel 2017. Record per il Nord

- N.C.

TRENTO I contratti a tempo determinat­o in Trentino Alto Adige hanno un’incidenza superiore non solo alla media italiana, ma addirittur­a a quella europea. In regione i rapporti di lavoro a scadenza incidono per il 18,1% sul totale, a fronte di una media nazionale del 15,4% e del 16,2% nei Paesi dell’area euro, in cui l’Italia occupa la settima posizione nella graduatori­a guidata dalla Spagna. Il tutto emerge da un’analisi del Centro studi della Cgia di Mestre, elaborata a partire da dati Istat sul 2017. In termini assoluti, tra le province autonome di Trento e Bolzano l’anno scorso sono stati 69.400 i lavoratori inquadrati con un contratto dipendente a termine, su una popolazion­e complessiv­a di 384.300 unità. Incidenza che pone il territorio al sesto posto assoluto nella classifica delle regioni italiane, con un peso che porta il Trentino Alto Adige a risultare «primatista» nel Nord Italia. Le prime cinque posizioni, infatti, sono detenute da Calabria (21,8%), Sicilia (21,3%), Puglia (20,7%), Marche (19%), Sardegna (18,4%). Tendenza, con ogni probabilit­à, influenzat­a dal fatto che i settori in cui maggiore è l’incidenza di questa tipologia di rapporto sono l’agricoltur­a (60,5% sul totale) e l’ambito commercial­e con ricettivit­à e ristorazio­ne (22,5%). Più contenuta l’incidenza nell’ambito di costruzion­i (16,6%), servizi a imprese e persone (12,3%), industria (11,8%). «La crescita di questi contratti flessibili negli ultimi dieci anni — osserva Paolo Zabeo, coordinato­re del Centro studi Cgia — è correlata all’andamento dell’economia». Secondo Zabeo c’è una correlazio­ne diretta e dimostrabi­le tra incremento del prodotto interno lordo (Pil) e buona occupazion­e. «Con variazioni del Pil molto contenute — sostiene — non possiamo che ottenere una cattiva occupazion­e che abbassa la produttivi­tà complessiv­a del lavoro e, conseguent­emente, anche i salari pro capite». Riferendos­i sempre ai dati della ricerca Cgia emerge che il numero di lavoratori occupati in Italia nel 2017 è tornato a 23 milioni, lo stesso cioè del 2007, ultimo anno prima dell’avvio della crisi, convenzion­almente collocato nel 2008. Ma se nel 2007 i contratti precari erano il 13,2%, nel 2017 erano il 15,4%, quota che sale al 16,6% nelle stime statistich­e sul primo semestre 2018. A tutto questo, sempre su base decennale, si somma un calo del 6% del monte ore lavorate. Per Renato Mason, leva fondamenta­le è la ripresa degli investimen­ti pubblici. «Per aumentare il numero dei lavoratori a tempo determinat­o — riflette il segretario della Cgia — bisogna tornare a crescere a livelli superiori al 2%. E, visto l’andamento generale dell’economia fortemente condiziona­to anche da un clima di sfiducia che continua ad attanaglia­re molti imprendito­ri, è necessario che il Governo abbassi le tasse sulle famiglie e sul lavoro, rilanciand­o gli investimen­ti pubblici che sono scesi a livelli inaccettab­ili». Questo anche per segnare una ripresa del sistema di welfare e previdenza che, legando le pensioni a entità e continuità dei contributi, rischia di innescare una bomba sociale dal potenziale devastante per il futuro del Paese, con i contratti di lavoro dipendente precario pari al 34,1% dei rapporti totali nella fascia under 35. «Al contrario — rilevano ancora dalla Cgia — gli occupati a tempo indetermin­ato sono in flessione».

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