American dream
Romano atteso venerdì a Corvara Presenta l’ultimo libro su Trump
Penso che gli Stati Uniti abbiano un alto concetto della loro funzione politica. Sono convinti di avere una missione, e ciò fa parte della loro storia e cultura. Nelle particolari virtù che ritengono di possedere hanno trovato a volte la giustificazione alle loro politiche imperiali, ma credo che con Donald Trump sia molto più difficile vantare questa superiorità morale». È questa l’essenza dell’american dream che — come spiega Sergio Romano (Vicenza, 1929) già ambasciatore alla Nato e quindi a Mosca, profes- sore universitario, editorialista del Corriere della Sera — con Trump presidente sta venendo meno. Da una quindicina d’anni il professor Romano è ospite autorevole di Un libro un rifugio, la rassegna letteraria dell’Alta Badia ideata e curata da Gianna Schelotto, presentando di volta in volta un focus su alcune questioni salienti del contemporaneo. Dopo Berlino capitale e Putin e la ricostruzione della grande Russia, in ques t a e di z i o ne l ’a ppuntamento è per venerdì alle 17.30 presso la sala manifestazioni di Corvara con un approfondimento su Trump e la fine dell’american dream (Longanesi). A introdurre l’atteso ospite ci sarà Enrico Franco, editorialista del Corriere del Trentino e Corriere dell’Alto Adige.
Politica
Questo presidente è il nemico di tutto ciò che l’America ha detto di essere negli ultimi decenni
Ambasciatore Romano, nel discorso di insediamento del 20 gennaio 2017 Trump ha affermato che quello «sarà ri- cordato come il giorno in cui il popolo diventa nuovamente padrone di questa nazione». Perché ha puntato su questo aspetto?
«Come t utti i discorsi di inizio presidenza, anche quello di Trump aveva un tasso di retorica particolarmente elevato. Non c’è dubbio, però, che Trump consideri se stesso un fatto nuovo, e in un certo senso lo è, bisogna riconoscerlo. Rappresenta il nemico di tutto ciò che l’America ha detto di essere nel corso degli ultimi decenni, del disegno politico che la presentava come un mondo liberal democratico, favorevole al libero commercio e ad altri aspetti a ciò collegati. Tutto questo non è condiviso da Trump, che ha un altro concetto degli Stati Uniti».
Quale?
«È erede di altre tradizioni politiche, quelle degli unila-
teralisti, dei protezionisti. Conoscevamo questa America, sapevamo che esisteva, era quella dominante in un certo periodo momento s to r i co, ma c’eravamo abituati a un’altra America in cui molti avevano riposto delle speranze, forse eccessive. Ora Trump ci dice che quel tipo di paese non gli piace, e che non piace neppure a quelli che hanno votato per lui. Al momento dell’insediamento ha parlato di un’era nuova, valuteremo nel tempo quanto nuova sarà».
Nel saggio descrive il presidente come uno straordinario venditore di se stesso. In che senso?
«Come in ogni uomo politico, in Trump ci sono almeno due persone: quella che ragiona attraverso argomenti politici, che noi dobbiamo cercare dei capire, e questo è il Trump isolazionista e prote-
zionista di cui parlavo prima. C’è poi il personaggio con le sue caratteristiche umane, tra cui ne distinguo due fondamentali. É innanzitutto un imprenditore edile, cioè un particolare tipo di imprenditore che. quando lavora nelle grandi città è esposto a una serie di contatti con gli ambienti migliori e peggiori che la compongono, e in questo contesto ha operato con profitto imparando tutte le lezioni buone e cattive».
E la seconda caratteristica?
«Ha scoperto di essere anche un attore, e pure un impresario di teatro. Penso al reality show che ha gestito alla te l e v i s i one a merica na per qualche anno. Gli piaceva, era il regista di se stesso. Questi reality costituiscono l’equivalente moderno della commedia dell’arte, basati su un canovaccio in cui l’improvvisaz i one è e s s e nzi a l e . Trump met te va in scena carriere aziendali e interveniva come giudice arbitro, compiacendosi ogni tanto di mandare via le persone dallo studio. A un certo punto ha deciso che queste cose le sapeva fare e ha finito per cominciare a giudicare le sue azioni sulla base del maggiore o minore successo che i suoi gesti riscuotevano di fronte al pubblico».
Però ora il suo ruolo è quello di presidente degli Stati Uniti.
«Anche quando fa una dichiarazione politica, valuta il successo sulla base della reazione che i suoi gesti e le sue parole provocano. Come molti attori in scena è alla ricerca dell’applauso, si chiede continuamente quale sia la strategia per riscuotere maggior consenso. Al G7 in Canada si deve essere arrabbiato perché “il padrone di casa” lo contraddiceva sotto il profilo della politica economica. Ha così rifiutato di firmare il comunicato congiunto, e quando un grande paese rifiuta di firmare è come avesse buttato tutto a l l ’a r i a . I n q u e l momento Trump riteneva che avrebbe avuto più successo comportandosi in quel modo».
È il fattore sorpresa che spiazza l’opinione pubblica, basti pensare al recente incontro con Kim Yong-un.
«Certo, anche con la Corea, e ora forse con l’Iran sta accadendo la stessa cosa. Passa dalla denuncia dell’impossibilità di un accordo all’affermazione invece che l’accordo c ’è. Se poi si va a scavare si scopre che le due affermazioni sono ugualmente arbitrarie. Se lui fosse il presidente di una repubblica parlamentare probabilmente qualcuno avrebbe già portato la sfiducia in parlamento. Gli Stati Uniti s o no p e rò u na monarchi a elettorale, e il “monarca” è Trump. Se non si riesce a incriminarlo con l ’ i mpeachment, la cui procedura è molto complessa, rimarrà magari criticatissimo, ma non può essere mandato a casa».