IL VALORE DELLA DIVERSITÀ
C’è da sempre la tendenza a fondare l’esperienza sulla polarizzazione. Il nostro linguaggio è affollato di dicotomie, la nostra vita pure. Noi e l’altro, maschio e femmina, bianco e nero sono esempi ricorrenti quando ci riferiamo alla cittadinanza, alla sessualità o all’etnia. La divisione binaria del mondo traccia una frontiera insuperabile. Definisce incompatibili tutte le transizioni e le ibridazioni. La cultura è la base comune di tali orientamenti, un impasto difficile da rimodellare.
Ètienne Balibar sostiene che intorno al confine si configura il mondo. Lo osserviamo da tempo al Brennero dove la marcia dei migranti, ora interrotta, ha riaffermato nel discorso politico il valore della divaricazione tra autoctono e allogeno, negando il senso plurale della nazione. E ciò vale anche per i confini delle città, come a Trento, dove la sovrapposizione lavora sotterraneamente. Sarà un tema di campagna elettorale anche se i migranti non arrivano più. Benedict Anderson osserva che «la fine dell’era del nazionalismo a lungo profetizzata non è minimamente in vista» e, rovesciando un sapere consolidato, considera il nazionalismo come un «manufatto culturale» che solo in un secondo tempo è germinato su «costellazioni politiche e ideologiche».
Nelle pieghe dell’affettività coesistono una pluralità di ruoli che travalicano l’equazione maschio-femmina.
Qui davvero l’empirismo avrebbe una sua utilità. Il genere è ormai da tempo stato problematizzato come categoria. L’identità sessuale è, dunque, un esito dei condizionamenti esercitati dalla società e dalla cultura. Questa teoria ha limitato l’approccio essenzialista o teologico fondato sulla natura umana, sul nesso tra identità e apparato biologico sessuale. Ecco perché, annunciando la sovversione dell’identità, Judith Butler coglie nella pratica sessuale «il potere di destabilizzare il genere». Essere sé stessi al di fuori del conformismo eterosessuale non è semplice e la politica è divisa trasversalmente dal tema. Il Dolomiti Pride o la riproposizione dello schema genitoriale «padre-madre» per la carta d’identità dei minori sono dimostrazioni di come il conflitto culturale agisca senza sosta.
Infine, il bianco e il nero è l’antinomia per eccellenza. Fanon sosteneva che «ciò che viene chiamata l’anima nera è una costruzione del bianco». Il colonialismo è stato un incubatore di stereotipie che sopravvivono ancora nei nostri quartieri, nelle adiacenze della Residenza Fersina. Bianco e nero è come dire forte e debole, alto e basso, nord e sud. Nessuno vuole essere subalterno e il candore della pelle aiuta.
Le visioni duali si allentano se esaminiamo la vita negli spazi intermedi della società. Asili, scuole, strade, condomini. Sono gli spazi della negoziazione politica e culturale dove l’antagonismo s’infrange, facendo emergere le screziature, rimettendo in discussione i presupposti, costruendo proiezioni più inclusive. La cultura è il terreno di lotta e di costruzione dei significati e la politica ha il dovere di tradurli, di tracciare un quadro d’insieme che non dimentichi nessuno e che valuti il potenziale della diversità, del particolare contro ogni pretesa universalistica.