Dal thriller a Dylan Dog, Paola Barbato si confessa
Barbato, sceneggiatrice e scrittrice, sarà a Terragnolo Parla di «Io so chi sei», ma anche di fumetti e fiction
Da lettrice affezionata di Dylan Dog a sceneggiatrice di questo titolo che, creato da Tiziano Sclavi nel 1986, ha accompagnato e accompagna ancora generazioni differenti. «Ho fatto un balzo straordinario, sono passata dall’altro lato della barricata, cosa che consiglierei a tutti i vari miei critici, perché qualsiasi linea si segua rimane sempre una frangia di lettori scontenti» — spiega Paola Barbato (Milano, 1971), sceneggiatrice di fumetti, tra cui appunto Dylan Dog e di fiction come Nel nome de male con Fabrizio Bentivoglio, nonché apprezzata scrittrice di thriller. Domani alle 20 presso la segheria veneziana di Terragnolo, la libreria Arcadia di Rovereto in collaborazione con i volontari del punto di lettura di Terragnolo presenta da Dylan Dog al thriller.
Durante l’incontro, intervistata da Marta Panizza della libreria Arcadia, Paola Barbato approfondirà il suo ultimo libro dal titolo Io so chi sei (Piemme). Il romanzo narra la storia di Lena che, due anni dopo la scomparsa del suo ragazzo, poi dato per morto, trova nella cassetta della posta un telefono cellulare: dapprima pensa ad uno scherzo, poi invece ad uno sbaglio, ma i messaggi che arrivano parlano di cose che solo lui può sapere.
Paola Barbato che cosa ha significato per lei diventare sceneggiatrice di Dylan Dog?
«Trovarsi dall’altra parte è difficilissimo soprattutto se sei un lettore esigente. Da un lato cerchi di seguire i dettami che sono immensi, perché le sceneggiature di fumetti hanno una completezza che non possiedono né le sceneggiature radiofoniche, né cinematografiche, né teatrali. In secondo luogo ho imparato quanto difficile fosse costruire una storia di Dylan Dog rispettando tutti i canoni senza però tradire le mie stesse aspettative».
Chi è per lei Dylan Dog?
«È una figura che ha avuto uno straordinario successo perché Tiziano Sclavi non ha creato un personaggio ma una persona che si distaccava da quella che era sempre stata l’idea dell’eroe. Anche quello più controverso, che non aveva dei limiti, non possedeva la caratura umana di Dylan Dog, soprattutto dal punto di vista emotivo. C’è chi in modo superficiale lo definisce “un bellone che fa un mestiere strano”, ma quando lo si legge ci si accorge che si tratta di una persona piena di difficoltà, di dubbi, di conflitti interiori in cui ogni lettore si può riconoscere. Quando è uscito Dylan Dog avevo quindici anni, ero nell’età giusta per un innamoramento romantico, ma non l’ho avuto. L’ho sempre considerato una sorta di compagno di università con cui si condivide una mansarda. Provo un senso di familiarità e non la distanza che si può avvertire nei confronti ad esempio di un Tex o di un Superman».
La furia dell’acqua, la dipendenza dal cellulare, gli effetti di un amore malato, il grigio che colora quasi tutti i veri protagonisti della vita: in che senso sono questi i quattro elementi di «Io so chi sei», il libro che presenterà a Terragnolo?
«Sono i quattro cardini su cui si impernia la storia. La furia dell’acqua rappresenta la mia vita passata e presente, ho vissuto a Desenzano fino a trent’anni e il Garda non è un lago che perdona. Ora mi sono spostata nel Veronese, vicino al fiume Adige, e l’elemento naturale per me rimane ineluttabile. La cronaca di quanto accaduto in questi giorni nelle Gole del Raganello lo testimonia. Di fronte ad un evento naturale siamo comunque sempre sguarniti. L’amore malato poi può far parte della vita di tutti, nel senso che una volta almeno può capitare di modificarci per fare piacere a qualcuno».
Come accade a Lena, la protagonista del libro?
«Il desiderio di far felice qualcuno sacrificando parte della nostra natura credo sia innato nella mag- gior parte delle persone, se questo meccanismo attecchisce in figure deboli come lo è Lena non c’è più via d’uscita. La presenza dei “grigi”, di tutte quelle persone che non emergono e rimangono mescolate in una folla omogenea e silente, viene raccontata di rado, e io ho voluto fare proprio questo. Le storie privilegiano il punto di vista dell’eroe o dell’antieroe, al massimo qualche volta in secondo piano si intravvedono delle figure grigiastre».
Ci rimane il quarto elemento: il cellulare che Lena trova dentro la cassetta delle lettere.
«Il cellulare rappresenta ormai una propaggine dell’essere umano, sembra che senza cellulare “scompariamo”, come a dire se non riescono a trovarmi io non esisto. È una cosa folle, eppure fa parte della nostra abitudine. Siamo molto più rassicurati dal fatto di poter essere trovati e non pensiamo che questo canale è aperto non solo per chi ci cerca per questioni affettive o comunque positive, ma anche per chi non vuole il nostro bene».
Saverio è un uomo che non c’è, eppure Lena è in sua balia. Voleva proporre il ritratto di una donna fragile o di un rapporto uomo-donna sbilanciato?
«Il grande carceriere di Lena è Lena stessa, di Saverio conosciamo solo cose riportate da lei. Nel ricostruire questo rapporto la protagonista si è raccontata un bellissimo film, che poi sia dell’orrore in certi momenti e romantico in altri, ci troviamo comunque di fronte a una sua narrazione: il genio del male è tutto nella testa della ragazza».
Antieroe Quello creato da Sclavi ha i dubbi e le difficoltà di tutti noi
La furia dell’acqua mi è nota, vivevo sul Garda e ora sono vicina all’Adige