Lionello Bertoldi, 90 anni «Nel mio petto batte un cuore comunista»
Il presidente emerito dell’Anpi: Salvini è destinato a fallire
BOLZANO L’autonomia che guarda all’Europa, il lager di via Resia, Silvius Magnago e il suo «Los von Trient» del 1957, la storicizzazione dei monumenti e dei cimeli del passato e l’esempio altoatesino che anche lui ha contribuito a costruire e a difendere.
Ma anche la fine del suo Pci, con la rinuncia al socialismo, il decadimento della politica nazionale e le battaglie giudicata «di retroguardia» di Salvini. Lionello Bertoldi, uno dei «grandi vecchi» della politica altoatesina — 90 anni venerdì — passa in rassegna una vita trascorsa in prima linea in difesa dell’uomo e delle sue libertà, ancor oggi memore dell’incitamento avuto da bambino dalla mamma, che ha potuto far studiare solo lui, primogenito di otto fratelli: «Nello, meteghela tuta!».
Senatore Bertoldi, lei da Silvius Magnago fino a Luis Durnwalder, ha vissuto da protagonista gli anni decisivi della storia altoatesina. Cosa ricorda di quei tempi?
«Diciamo che io sono vissuto un po’ di eredità. Il mio impegno, soprattutto negli ultimi 20 anni, è stato quello di proteggere la memoria dell’immenso sacrificio che è stato vissuto. Parlo del mio lavoro nell’Anpi, di cui sono stato presidente. Prima sono stato 5 anni consigliere comunale a Laives e 18 anni a Bolzano e quando poi dovevo finire in Provincia, sono stato invece eletto al Senato».
La famosa decima legislatura.
«Esatto, dal 1987 al 1992. Una legislatura che mi ha coinvolto ma anche molto stancato, tanto che alla fine mia moglie non ha neppure faticato tanto a convincermi a smettere».
Dentro di lei batte ancora un cuore comunista?
«Sì, ma non solo quello. Io voglio che vengano fuori i valori degli uomini. Fra i grandi che lei prima ha nominato, uno che io ho ammirato fin dal 1957 è stato Magnago. Ricordo il suo grande comizio di Castel Firmiano, quello del “Los von Trient”. Mi ci sono fatto accompagnare da un amico di madrelingua tedesca, Heinrich Veit, perché io non avevo la macchina. Ma, da tanta gente che c’era, non ci arrivammo neppure vicino. Così lo sentii soltanto. Quella è stata una prima grande indicazione per l’autonomia, condivisa anche dal potere politico. Ciò coincideva anche con miei principi di fervente autonomista, e oggi sono orgoglioso che la mia Repubblica abbia espresso tutta la sua grandezza concedendo l’autonomia al popolo sudtirolese. Una scelta che ha fatto diventare l’Italia uno Stato d’Europa e che oggi l’Ue guarda con ammirazione, anche per questa ragione».
Ai suoi tempi c’era un’altra etica e quindi un’altra politica, nonostante gli scontri, anche durissimi?
«Guardi, io sono sempre stato un feroce oppositore. Però era sempre leale opposizione politica, nel senso di indicare le cose che andavano fatte prima e meglio. Noi distinguevamo tutti fra battaglia politica e dignità personale, che va sempre rispettata. Oggi questo non succede più. C’è un decadimento generale. Invece la politica è la ricerca di obiettivi comuni sui quali creare una maggioranza»
Quali sono le colpe, se vi sono colpe, che hanno portato alla scomparsa del Pci in Italia?
«Ci sono delle responsabilità, ma anche delle rinunce. Una di esse è quella di non avere più nominato il socialismo. Abbiamo cambiato nome al partito, ma non abbiamo più nominato la parola socialismo e socialista. Una contraddizione, perché noi siamo sempre stati per costruire una società più giusta, quindi socialista. Anche sparita l’Unione sovietica, comunisti e socialisti in Italia potevano restare l’alternativa per tutti i deboli. É stata una grande mancanza che oggi non si può recuperare, mentre resta forte il reclamo popolare di giustizia ed equità».
Nel contesto attuale, esiste ancora la classe operaia?
«La classe operaia non esiste più. I grandi contenitori dove gli uomini si ritrovavano non esistono più. Nelle fabbriche la tecnologia, che non ha valori o esigenze, ha prevalso sui valori e sulle esigenze che invece sono prerogative continue degli uomini».
Parliamo del lager di via Resia.
«Proteggere quella memoria di grande sacrificio è stato il mio impegno principale. Pensiamo che dentro quel lager sono passati molti più cittadini di lingua tedesca di questa provincia che non altoatesini di lingua italiana, e che tutti si sono ritrovati nelle medesime condizioni, aggrappati alla lotta per la loro sopravvivenza, in una prova costruttiva di convivenza ante litteram. É stato difficile in passato, ma sono orgoglioso che oggi il presidente Kompatscher ritorni il 25 aprile al muro del lager a pronunciare un discorso che incita a guardare avanti. Ai miei tempi, i consiglieri comunali della Svp me lo dicevano in faccia che il 25 aprile non li riguardava. Oggi sappiamo che è stata Liberazione, per tutti, anche per gli altoatesini di madrelingua tedesca, che hanno anticipato la resistenza italiana con le Katakombenschule e con la resilienza alle Opzioni, un’altra violenza che sono stati costretti a subire. Parlando di lager e di partigiani, però vorrei ricordare altre sei persone, più anziane di me, che sopravvivono ancor oggi a quei giorni: Tarquinio Barbierato e Bruno Bertoldi, internati e poi i partigiani Odino Bisinella, Renato Dal Piaz, Giacinto Fassoni e Bruno Zito».
C’è qualcosa che invidia ai nostri concittadini di madrelingua tedesca e qualcosa di cui va fiero?
«Solo la parola Heimat, che trovo dolcissima e che noi non abbiamo, ma sono anche fiero della mia Repubblica che ci ha concesso di entrare insieme in Europa».
Volgiamo chiudere con la politica italiana di oggi?
«La trovo scadente, Salvini sta facendo delle battaglie di retroguardia destinate a fallire. Forse io non ne vedrò il fallimento, ma il destino di queste battaglie è segnato».
Proteggere la memoria del grande sacrificio avvenuto nel lager di via Resia è stato il mio impegno principale