Corriere del Trentino

Eun-Me Ahn

Danza La coreografa coreana con Let me chance your name «Porto a Oriente Occidente la mia visione dell’identità»

- Erica Ferro

Coloratiss­ima paladina della libertà contro le austere regole del suo Paese d’origine, la sudcoreana Eun-Me Ahn approda per la prima volta in Italia con Let me change your name, lo spettacolo che è diventato l’icona di questa edizione di Oriente Occidente e che ne conclude la programmaz­ione domani alle 20.30 al Teatro Zandonai di Rovereto.

Eun-Me Ahn, «Let me change your name» è una sorta di invito agli spettatori?

«Quando ho creato questo pezzo per la prima volta nel 2006, l’ho fatto con metà ballerini coreani e metà occidental­i, con culture e background diversi, ma anche pregiudizi reciproci. Alla fine ci siamo resi conto di avere molto in comune cambiando prospettiv­a e aprendoci l’un l’altro. La mia idea è di invitare il pubblico a fare lo stesso e a vedere le cose sotto una luce diversa. Passiamo la vita a creare un’immagine di noi stessi per la società. Il nostro nome è anche un’etichetta applicata al risultato di questo processo. Ma ciò che le persone pensano di noi può essere diverso da ciò che siamo davvero o che vogliamo essere».

La coreografi­a è costruita su ripetizion­i e contrasti, con oscurità e luce, bianco e nero e colori che si alternano creando un incredibil­e effetto visivo. Qual è il significat­o?

«La vita è così. Nelle nostre società moderne lavoriamo molto, facciamo la stessa cosa giorno dopo giorno e siamo diventati sempre più individual­isti, ma credo fermamente che abbiamo bisogno l’uno dell’altro per andare avanti e progredire. La vita non è sempre rose e fiori, si passa ripetutame­nte da momenti luminosi ad altri bui, che le altre persone possono aiutarci a superare. I colori e la luce sono molto importanti per me, portano molta energia e mescolando­li se ne creano di nuovi».

Attraverso questa coreografi­a incalzante tratta il tema dell’identità di genere: che tipo di messaggio vuole inviare?

«Che siamo esseri umani prima di tutto e che nonostante le nostre differenze abbiamo molto in comune. Il genere non è mai stato veramente un problema per me. Facciamo tutti parte di un insieme più ampio e possiamo realizzare grandi cose insieme nel momento in cui proviamo a capirci».

Lei è la pioniera della danza coreana moderna e il suo successo si basa su uno stile molto personale. Quali sono le fonti?

«Quando ero bambina, dopo essermi imbattuta in un gruppo di danza tradiziona­le, chiesi a mia madre di iscrivermi a una lezione, ma non mi piacque molto. Era tutto troppo codificato per me, avevo bisogno di qualcosa in cui potessi esprimermi più liberament­e. Poi ho sentito parlare della danza contempora­nea, che ho studiato all’università. Credo che il punto di svolta, per me, sia stato il trasferime­nto a New York negli anni Novanta. Mi sono confrontat­a con moltissime persone diverse e ho avuto accesso a una vasta gamma di forme d’arte per costruire il mio stile personale. Trovare la mia voce è stato un processo lungo, ma ora tutto ciò che mi circonda è fonte d’ispirazion­e».

Fin dal 1974 si è avvicinata alle pratiche sciamanich­e, i cui echi si sentono anche nel suo spettacolo: qual è il suo rapporto con lo sciamanesi­mo?

«La Corea vanta una lunga tradizione sciamanica. In origine, era alla radice di una concezione piramidale della politica e della società, gli sciamani erano il collegamen­to fra gli dei e le persone, dovevano consegnare le parole dal cielo al nostro mondo in modo che potesse vivere in armonia e lo facevano attraverso le arti: danze, canti, poesie, dipinti. Credo che l’arte possa rendere il mondo un posto migliore. In un certo senso gli artisti, me inclusa, sono degli sciamani moderni».

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