Cermis tra morte e dolore Cagol «rilegge» la strage
Il racconto della strage di vent’anni fa diventa uno spettacolo teatrale col monologo affidato a Mario Cagol, al suo primo ruolo drammatico
Martedì 3 febbraio 1998, primo pomeriggio. Una tranquilla giornata di neve sull’Alpe del Cermis. Una data che, a vent’anni di distanza, continua a riportare alla mente quella vicenda di morte, dolore e dinamiche di potere che è conosciuta con il nome di «strage del Cermis». Alle 15.12 un Grumman EA-6B Prowler del corpo dei Marines statunitense, decollato dalla base aerea friulana di Aviano per un normale volo di esercitazione, trancia i cavi della funivia che scende dalle piste. La cabina precipita da un’altezza di circa 150 metri uccidendo i 19 passeggeri e il manovratore (foto archivio Errebi). L’aereo, che vola a 150 chilometri all’ora più del previsto e a soli 110 metri di altitudine invece che 609, è pilotato dal capitano Richard Ashby, alla sua ultima missione in Italia prima del ritorno negli Usa, insieme con il navigatore Joseph Schweitzer e gli addetti ai sistemi di guerra elettronica William Rancy e Chandler Seagraves.
Dall’altra cabina, rimasta incredibilmente illesa, il macchinista Marino Costa ha assistito incredulo alla tragedia e rimarrà bloccato nel vuoto in stato di choc per oltre un’ora, in attesa dei soccorsi. Ma alla tragedia della morte ne seguirà un’altra, più grave. Quella della mancanza di giustizia. In Italia il governo guidato da Romano Prodi prende una posizione formalmente dura, chiedendo che i piloti vengano giudicati da un tribunale italiano. Ma gli accordi Nato, sulla base della Convenzione di Londra del 1951 che regola lo status dei militari, stabiliscono che la questione spetta ai tribunali militari americani. L’allora presidente Bill Clinton promette giustizia, ma la conclusione della vicenda è tristemente nota. Emerge la scioccante notizia che i militari in volo stavano girando un video ricordo, distrutto al ritorno alla base, che probabilmente è stata la causa delle distrazioni e della negligenza rispetto ai regolamenti di volo, ma i marines si difendono sostenendo la causa del tragico incidente generato dal malfunzionamento della strumentazione. Dei quattro uomini a bordo del Prowler solo Ashby e Schweitzer vengono processati: Ashby viene assolto per la condotta del volo, nonostante sia stato provato che gli strumenti fossero in funzione e si trovasse sotto la quota minima autorizzata, ed entrambi sono degradati e rimossi del servizio per «l’intralcio alla giustizia» creato con la distruzione del videoricordo. Nel 2000 arriva il risarcimento per le vittime: per ogni persona tre miliardi e 800 milioni di lire, pari a circa due milioni di dollari. Gli organi di informazione insorgono contro quello che è un caso che segnerà per molti anni i rapporti Italia-Stati Uniti, ma anno dopo anno il silenzio copre ogni cosa.
Una vicenda oscura e limpida al tempo stesso, della quale è importante mantenere memoria. Proprio perché il ricordo di tali fatti non si perda, domani, 12 ottobre alle 20.45 arriva al teatro di Villazzano a Trento ospiterà il monologo «Ciò che non si può dire», tratto dal libro «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» di Pino Loperfido, testo già messo in scena 17 anni fa da Andrea Castelli. La nuova produzione, con la regia di Mirko Corradini e le musiche originali e suonate live da Alessio Zeni, porta in scena come protagonista una piccola sorpresa per il pubblico trentino: Mario Cagol (foto). L’attore comico, lasciate le vesti di Nonna Nunzia e dei suoi tradizionali personaggi, affronta questo lavoro di intenso teatro civile con la grave consapevolezza di cosa abbia significato e dell’impegno che lo attende. «Chi sale su un palco ha sempre la responsabilità e il privilegio di fare da megafono alle vicende della gente comune — commenta Cagol —. Per questo vorrei riuscire a prendere la parola a nome di tanti altri. Si tratta dell mio primo spettacolo drammatico, quindi ho dovuto lavorare molto e affrontare anche alcune difficoltà. Ma ho vissuto con naturalezza la sfida di far emergere la mia parte più drammatica, lavorando sui miei pensieri e sui miei sentimenti. In alcuni tratti mi commuovo in modo spontaneo, senza che io cerchi di amplificare o reprimere l’emozione, e spero che questa arrivi al pubblico».
La nuova produzione, che della precedente mutua il titolo e il testo ma che è completamente rinnovata in durata e mise en scène, ne mantiene la carica di significato: «Spero che il pubblico esca dalla sala con addosso un certo fastidio e la consapevolezza che, in opposizione a ciò che recita il titolo, bisogna sempre dire tutto».