I coltivatori del rancore, parole usate per distruggere
A poche ore dall’ultimo respiro terreno di Lello Di Segni, unico testimone sopravvissuto fino a oggi fra i sedici ebrei romani tornati dai campi dello sterminio, un «suprematista» americano ha esploso i proiettili del suo insensato razzismo antisemita nella Sinagoga di Pittsburgh, durante le celebrazioni dello Shabbat, la festività ebraica del Sabato. E così undici innocenti si sono ritrovati ad accompagnare quel vecchio deportato nella recita eterna dello «Shemà Israel», mentre le iscrizioni quotidiane alla scuola dell’odio aumentano a vista d’occhio.
Come sempre le frasi di circostanza e la solidarietà d’occasione non mancano e anzi, forse, si sprecano nell’incoerente sproloquio di quegli stessi coltivatori del rancore i quali, usando le parole come clave, convincono, indottrinano, abituano e spingono i più fragili fra i loro ascoltatori a imbracciare le troppe armi del disprezzo, nel complice e diffuso silenzio di quanti osservano indifferenti e subito dimenticano.
Non si tratta solo di una tragedia americana, quella consumatasi in queste ore. Non è solo un dramma che ricorda ben altro. Non è solo il frutto dell’aberrazione di menti malate, perché ciò che è accaduto in America oggi, come in Francia ieri e in Germania l’altro ieri ancora, è, prima di tutto, il segnale ricorrente di un allarme che spaventa e preoccupa in sé, dicendo dei crescenti rischi di ogni giorno nell’uso irresponsabile della parola.
Quando infatti l’avversario diventa il nemico; quando la diversità diventa colpa; quando la critica si trasforma in giudizio inappellabile; quando l’ascolto delle proprie verità sovrasta ogni altra verità possibile; quando gli errori di un singolo diventano macchia per interi gruppi sociali; quando la ragione urlata del più forte cancella quelle sussurrate della tolleranza e del rispetto e quando, infine, il dialogo fra le culture dell’umanità si trasforma in lotta per lo spazio vitale di singoli nazionalismi spolverati di xenofobia, allora si assemblano le micidiali componenti dei proiettili che poi uccidono a Pittsburgh come altrove.
L’antisemitismo, in tale contesto, è la spia prima; il rivelatore del disagio; il segnale di un’inquietudine collettiva che cerca colpevoli ai quali addossare ogni responsabilità, sia di ciò che accade al mondo e alle dimensioni collettive, sia di ciò che accade all’individuo e alla sua sfera privata. E l’antisemitismo, come tutte le materie dell’odio, si nutre anzitutto di parole; di vocaboli, un tempo banditi dai linguaggi; di teorie indimostrate e indimostrabili; di insinuazioni subdole; di dubbi ripetuti mille volte; di bugie e falsità costruite ad arte; di sdoganati insulti e di disprezzi evidenti in una sorta di vite senza fine che trova nuovo e ospitale albergo nella «rete», per scavare dentro le coscienze più deboli e spingerle a diventare «vendicatori solitari» di supposti torti che si immaginano subiti da interi popoli.
Fermare questa spirale è ancora possibile, solo recuperando il senso delle parole, il loro significato autentico, le loro implicazioni, il loro peso e tutto questo si chiama responsabilità e vale in politica come nella vita di tutti i giorni. Una responsabilità che è, prima di tutto, di chi parla alla gente, come i leader e gli uomini pubblici e poi di quanti trasmettono e largamente diffondono quelle parole pronunciate nelle piazze, nei talk-show e nei luoghi delle aggregazione. Dimenticare il senso profondo di questa responsabilità significa armare ancora nuove follie sanguinarie che, prima o poi, potrebbero distruggere anche tutti noi.