LE IDEE ACCANTO AI NUMERI
Nel commentare il terzo rimpasto operato dal sindaco di Trento, Alessandro Andreatta, Lorenzo Dellai che del capoluogo è stato il primo cittadino, ha riportato alla memoria la svolta che cambiò i connotati politici, non solo alla città, ma all’intera provincia. Correva l’anno 1993, a Palazzo Thun un giovane Dellai si trovò a dover fronteggiare l’onda di Tangentopoli che travolse pure il Trentino, spazzando via anni di amministrazione targata Dc. Facendo le debite proporzioni, lo tsunami leghista che si è abbattuto il 21 ottobre ha molte similitudini con ciò che lasciò a terra l’inchiesta di «Mani pulite». Proprio per questo l’aver evocato quel precedente da parte di Dellai non è stato un esercizio di pura nostalgia politica. In quella rivoluzione, che segnò il primo esperimento di centrosinistra, Trento divenne una sorta di laboratorio politicoamministrativo. Non fu un passaggio indolore, soprattutto per la Democrazia cristiana, che un po’ alla volta perse pezzi importanti. Il gruppo consiliare di Trento si spaccò in maniera traumatica: i ribelli al disegno dellaiano diedero vita al famoso «Dc-8», diventando una sorta di governo ombra. Lo stesso Dellai venne scomunicato dall’allora segretario Dc, Renzo Gubert.
Il disegno portò alla nascita di un’alleanza tra Dc (la parte più aperta alla sinistra), Pds (il Pd odierno), il Psi, i Verdi e i repubblicani.
Una giunta light formata da cinque assessori(Visintainer, Grisenti, De Bernardis, Pacher e Stefenelli) più il sindaco (Dellai) e un programma che aveva nel traffico e nei parcheggi i cardini principali. Quest’alleanza centrista, ambientalista e di sinistra (sinistra filo governativa impersonata da Alberto Pacher) traghettò Trento fuori dalla palude gettando le basi per un patto di governo che dura ancora adesso, anche se ultimamente ha perso smalto, appiattito su un’azione amministrativa fatta da molte ombre e poche luci.
Di quell’esperienza, che nel bene e nel male segnò la fine di un’epoca, non è mai stata fatta un’analisi a tutto tondo. Possiamo però dire che l’intuizione di Dellai regalò una nuova prospettiva politica al capoluogo, e non solo. Come tutti gli strappi, provocò fratture insanabili: alcune necessarie, altre meno. Il ruolo dei partiti, ad esempio, finì per essere erroneamente calpestato, sacrificato sull’altera di un nuovismo considerato indispensabile. Vero, Tangentopoli mostrò al Paese l’aspetto più negativo e indifendibile dei partiti, ma invece di riformarli se ne decretò la fine. Risultato: non essendoci più un filtro e una scuola di formazione abbiamo una classe politica nella maggior parte dei casi impreparata. Quindi, tornando alla stretta quotidianità, Andreatta come il Dellai del 1993? Assolutamente no. L’attuale sindaco ha cambiato, come nelle sue prerogative, puntando a ricercare soprattutto un equilibrio capace di dare ossigeno a una maggioranza ansimante, in perenne conflitto con se stessa. Andreatta ha fatto i conti vestendo i panni del buon padre di famiglia, cercando di allontanare lo spettro delle elezioni anticipate. La mossa ha sollevato più dubbi che certezze. Il rischio, quindi, di andare alle urne prima del 2020 rimane inalterato e ogni delibera può rappresentare una potenziale trappola.
Manca insomma un’idea aggregante dentro una coalizione sfilacciata, dove vige il tutti contro tutti. La recente intervista all’assessore del Patt, Roberto Stanchina, pubblicata da questo giornale, fa capire — per chi vuole ascoltare — molte cose. La maggioranza ha il fiato corto ed è senza futuro, anche se dovesse riuscire a tagliare il traguardo naturale di fine legislatura. L’unica via d’uscita è ricompattarsi attorno ad alcuni temi strategici (nuovo Piano regolatore in primis, perché il maltempo di questi giorni ci conferma come la gestione del territorio meriti di stare in cima agli obiettivi programmatici di un’amministrazione) mettendo da parte rancori e personalismi. Più facile a dirsi che a farsi. Ma la città merita rispetto.