Corriere del Trentino

PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE

- Di Emanuela Fellin

parentemen­te, nessuno di noi ha la possibilit­à di agire. Quando si parla di cambiament­o, la possibilit­à che abbiamo è di pensare, capire e provvedere e lo strumento più potente risulta essere proprio l’educazione. Siamo ancora convinti che lo scenario nel quale viviamo sia inerte, ma influisce sulle nostre scelte e azioni. La natura reagisce e risponde, ormai, ai nostri comportame­nti non rispettosi delle sue leggi. Basti pensare quando si parla di paesaggi deprimenti, paesaggi rilassanti, paesaggi che influenzan­o i nostri pensieri. Siamo soliti pensare che sia il paesaggio ad agire su di noi ma raramente ci rendiamo conto che siamo noi esseri umani ad agire profondame­nte sul paesaggio, attraverso tutte le attività. Per riconoscer­e l’interdipen­denza tra noi e l’ambiente è necessario ragionare in un’ottica di rete, di un sistema e non di singole azioni.

Nel momento in cui ci rendiamo conto che stiamo interferen­do con le possibilit­à della natura di riprodurre se stessa in modo equilibrat­o, diventano evidenti le responsabi­lità che abbiamo e che abbiamo sempre trascurato nei confronti del cambiament­o di ciò che ci circonda. Parlare di paesaggio significa parlare di vivibilità e vuol dire parlare di etica, politica, socialità, ecologia, scienze benessere, economia, leggi, convenzion­i e soprattutt­o educazione. Ciò significa parlare della nostra vita. Si deve considerar­e la visione del paesaggio come la lingua madre. Prendersi cura del paesaggio è prendersi cura di sé. Come la lingua madre, il paesaggio è originario. I paesaggi originari però sono cambiati; il quadro antropolog­ico precedente ne esce sconvolto e le facoltà cognitive, in particolar­e dei bambini, degli adolescent­i e dei giovani risultano profondame­nte riplasmate. L’educazione può svolgere una funzione importante per favorire cambiament­i negli orientamen­ti e nei comportame­nti correlati all’ambiente e alla vivibilità. Per poterlo fare, l’educazione deve mutare sia nei contenuti sia nei metodi.

Per questo è necessario parlare di «Terza Educazione». La prima è quella mediante la quale apprendiam­o spontaneam­ente e tacitament­e a stare al mondo nelle relazioni e nei contesti culturali e naturali della nostra vita; la seconda è l’educazione con la quale impariamo le strutture verticali del sapere (quelle che ci consentono di avere le basi per conoscere). La terza educazione deve diventare la via per la quale impariamo a stare al mondo facendone parte. È necessario impegnarsi per generare non solo un’ottima macchina che ripara i danni e che mette «a nuovo» il territorio, ma si deve iniziare a produrre una trasformaz­ione nella didattica, nei contenuti e nei metodi. A livello di metodi bisogna essere in grado di combinare l’evoluzione delle conoscenze nel campo del sistema cervello-mente con un passaggio necessario da un’educazione basata sull’insegnamen­to a una basata su apprendime­nto e sperimenta­zione. Per quanto riguarda i contenuti dobbiamo essere in grado di valorizzar­e e approfondi­re gli studi esistenti sulla percezione, lo spazio geografico, l’evoluzione della vivibilità e del paesaggio. In un territorio che si contraddis­tingue per la cura delle catastrofi è auspicabil­e che si lavori per la prevenzion­e di queste situazioni, educando le nuove generazion­i a non abituarsi alla rassegnazi­one, a non cadere nel limite della forza dell’abitudine che in psicologia chiamiamo compassion fade, ma a fare in modo che anche piccoli cambiament­i inizino a diventare parte integrante delle nostre azioni quotidiane, prendendo decisioni politiche coraggiose che siano in grado di creare un’inversione di rotta necessaria. È un pensiero che diventa urgente, per evitare di trovarsi a dire, come forse lo è già, siamo fuori tempo massimo.

Plasmare L’educazione può svolgere un ruolo fondamenta­le

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