PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE
parentemente, nessuno di noi ha la possibilità di agire. Quando si parla di cambiamento, la possibilità che abbiamo è di pensare, capire e provvedere e lo strumento più potente risulta essere proprio l’educazione. Siamo ancora convinti che lo scenario nel quale viviamo sia inerte, ma influisce sulle nostre scelte e azioni. La natura reagisce e risponde, ormai, ai nostri comportamenti non rispettosi delle sue leggi. Basti pensare quando si parla di paesaggi deprimenti, paesaggi rilassanti, paesaggi che influenzano i nostri pensieri. Siamo soliti pensare che sia il paesaggio ad agire su di noi ma raramente ci rendiamo conto che siamo noi esseri umani ad agire profondamente sul paesaggio, attraverso tutte le attività. Per riconoscere l’interdipendenza tra noi e l’ambiente è necessario ragionare in un’ottica di rete, di un sistema e non di singole azioni.
Nel momento in cui ci rendiamo conto che stiamo interferendo con le possibilità della natura di riprodurre se stessa in modo equilibrato, diventano evidenti le responsabilità che abbiamo e che abbiamo sempre trascurato nei confronti del cambiamento di ciò che ci circonda. Parlare di paesaggio significa parlare di vivibilità e vuol dire parlare di etica, politica, socialità, ecologia, scienze benessere, economia, leggi, convenzioni e soprattutto educazione. Ciò significa parlare della nostra vita. Si deve considerare la visione del paesaggio come la lingua madre. Prendersi cura del paesaggio è prendersi cura di sé. Come la lingua madre, il paesaggio è originario. I paesaggi originari però sono cambiati; il quadro antropologico precedente ne esce sconvolto e le facoltà cognitive, in particolare dei bambini, degli adolescenti e dei giovani risultano profondamente riplasmate. L’educazione può svolgere una funzione importante per favorire cambiamenti negli orientamenti e nei comportamenti correlati all’ambiente e alla vivibilità. Per poterlo fare, l’educazione deve mutare sia nei contenuti sia nei metodi.
Per questo è necessario parlare di «Terza Educazione». La prima è quella mediante la quale apprendiamo spontaneamente e tacitamente a stare al mondo nelle relazioni e nei contesti culturali e naturali della nostra vita; la seconda è l’educazione con la quale impariamo le strutture verticali del sapere (quelle che ci consentono di avere le basi per conoscere). La terza educazione deve diventare la via per la quale impariamo a stare al mondo facendone parte. È necessario impegnarsi per generare non solo un’ottima macchina che ripara i danni e che mette «a nuovo» il territorio, ma si deve iniziare a produrre una trasformazione nella didattica, nei contenuti e nei metodi. A livello di metodi bisogna essere in grado di combinare l’evoluzione delle conoscenze nel campo del sistema cervello-mente con un passaggio necessario da un’educazione basata sull’insegnamento a una basata su apprendimento e sperimentazione. Per quanto riguarda i contenuti dobbiamo essere in grado di valorizzare e approfondire gli studi esistenti sulla percezione, lo spazio geografico, l’evoluzione della vivibilità e del paesaggio. In un territorio che si contraddistingue per la cura delle catastrofi è auspicabile che si lavori per la prevenzione di queste situazioni, educando le nuove generazioni a non abituarsi alla rassegnazione, a non cadere nel limite della forza dell’abitudine che in psicologia chiamiamo compassion fade, ma a fare in modo che anche piccoli cambiamenti inizino a diventare parte integrante delle nostre azioni quotidiane, prendendo decisioni politiche coraggiose che siano in grado di creare un’inversione di rotta necessaria. È un pensiero che diventa urgente, per evitare di trovarsi a dire, come forse lo è già, siamo fuori tempo massimo.
Plasmare L’educazione può svolgere un ruolo fondamentale