La dotta lira e quell’antico maniero di Bolzano custode dell’amore ovidiano
L’estate scorsa ho avuto modo di degustare la granita di gelso che lo chef Corrado Assenza, uno dei guru pluripremiati della pasticceria internazionale, proponeva ai suoi clienti al Caffè Sicilia di Noto, la sontuosa cittadina del barocco siciliano. Color vermiglio, sapore inconfondibile, papille gustative coinvolte in un amplesso irripetibile. Il gelso è una pianta originaria dell’Asia poi diffusasi anche in occidente. Ed è proprio nella città di Babilonia sotto «un alto gelso, vicino a una gelida sorgente» che Ovidio pone tragicamente temine all’amore contrastato di Piramo e Tisbe coinvolgendo, nella Conclusio, anche gli Dei i quali mossi da pietà nell’ascoltare le suppliche di Tisbe prima di lanciarsi anch’essa sulla spada dell’amato Priamo, già suicidatosi con lo stesso mezzo credendola morta, trasformano i frutti del gelso in color vermiglio, intriso del sangue dei due amanti, a ricordo perenne del tragico evento. È Ovidio ne Le metamorfosi che ci racconta il tragico amore dei due giovani (Libro IV, vv 55-166). La morte che unisce e che rende l’amore immortale. Boccaccio, Chaucer, Shakespeare ne riprendono il mito elaborandolo ma già Sant’Agostino ci parla del suicidio di Priamo nel De Ordine (I, VIII, 24). Nel corso dei secoli il mito di Priamo, il più bello tra tutti i giovani, e Tisbe, la più desiderata tra tutte le fanciulle d’Oriente, cresce a dismisura, influenzando scrittori e artisti. Con Le metamorfosi Ovidio ci ha trasmesso numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana ed è anche grazie al tipografo bolognese Baldassarre Azzoguidi con Ovidius, Opera del 1471, una delle prime edizioni a stampa, che Le Metamorfosi diventano una delle letture rinascimentali più diffuse. Ne è testimone anche il Castel Mareccio di Bolzano, antico maniero risalente al XIII sec. trasformato in prestigiosa residenza a metà del XVI sec. dalla famiglia Römer con la costruzione dei torrioni angolari e l’aggiunta nel cortile di una loggia che custodisce un affresco coevo con i due amanti ovidiani. Il 2018 ci ha offerto la possibilità di ricordarci del poeta romano Publio Ovidio Nasone, nato in Abruzzo a Sulmona, a duemila anni dalla sua morte avvenuta in esilio a Tomi (l’attuale Costanza in Romania, sul Mar Nero) nel 18 d.C. dov’era giunto nell’8 d.C., caduto in disgrazia presso Augusto. Non è certa la morte nel 18 d.C., per alcuni studiosi è invece avvenuta nel 17. Infatti, la Biblioteca Comunale di Trento gli aveva dedicato un omaggio per i duemila anni dalla morte con una mostra di libri il 21 marzo 2017 in occasione della «Giornata mondiale della Poesia». Molti i ricordi e le celebrazioni programmate del 2018 fra cui la recente apertura alle Scuderie del Quirinale di una mostra Ovidio. Amori, miti e altre storie e, da alcune settimane, in libreria l’ultima fatica di Paolo Isotta La dotta lira. Ovidio e la musica (Marsilio, pp. 427, euro 22). Apollo, Dafne, Orfeo, Euridice, Venere, Adone sono alcuni miti ovidiani messi in musica dai più noti compositori in cinque secoli di musica che Paolo Isotta, uno dei più grandi uomini di cultura che l’Italia si onora di avere, già critico musicale ed elzevirista del Corriere della Sera per 40 anni, con impareggiabile maestria letteraria e mirabile scavo musicologico ci conduce per mano in un affascinante lettura, che è un avvincente viaggio alle radici della cultura europea. Un libro da portare sull’arca… assieme alla granita di gelso di Corrado Assenza.