Corriere del Trentino

Venezia, il precedente «Presi un bodyguard I fedeli applaudiro­no altri dissero: razzista»

- Giacomo Costa

VENEZIA Al duomo di Mestre, nel Veneziano, era cominciato con le richiesti «insistenti» di elemosine, si era arrivati ai furti di telefonini tra gli ultimi banchi della chiesa e tutto si era concluso chiamando un paio di parrocchia­ni ben piazzati a sorvegliar­e i portoni e la scalinata. Nel mezzo, tanta solidariet­à al parroco ma anche qualche «razzista», urlato durante la messa. Nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Trento, invece, dove da mesi spariscono le donazioni e i muri esterni vengono presi per orinatoi, è intervenut­o direttamen­te il presidente della Provincia, il leghista Maurizio Fugatti, le guardie giurate. Problemi e soluzioni simili, facile indovinare anche le stesse polemiche intorno alla decisione. Intanto, però, davanti al duomo di San Lorenzo gli accattoni violenti non ci sono più, merito dei bodyguard voluti dal parrocchia, o forse o dell’auto della polizia locale parcheggia­ta a una manciata di metri dalla scalinata delle elemosine. All’epoca – era il 2013 – l’idea di un servizio d’ordine era venuta a monsignor Fausto Bonini, allora parroco di San Lorenzo, dopo aver ascoltato voci preoccupan­ti: «Un prete del territorio, di origine rumena, mi raccontò che a Mestre si stava organizzan­do una sorta di racket: venivano selezionat­i in Romania disabili e mutilati, li spedivano qui e li costringev­ano a chiedere la carità. I soldi venivano poi spediti in patria e usati per finanziare delle costruzion­i». Bonini aveva poi visto con i suoi occhi la situazione degenerare: i questuanti aggredivan­o i parrocchia­ni, pare che avessero iniziato a suonare anche casa per casa per «riscuotere» le elemosine. In quel periodo il centro di Mestre era tenuto sotto scacco da gruppi di senzatetto che, accampati sotto i cavalcavia o negli stabili abbandonat­i, durante il giorno si spostavano tra la terraferma e la laguna per chiedere la carità; i giornali li avevano battezzati «barbanera» e presto divennero lo spauracchi­o cittadino. «Donare soldi a quelle persone non era un atto di carità, avevo paura che i parrocchia­ni, in buona fede, alimentass­ero questo meccanismo», continua don Fausto. Il vaso traboccò quando iniziarono i furti: «Durante la messa, nelle ultime file, iniziarono a sparire i cellulari. Allora decisi di agire: grazie ad un fedele rumeno, che capiva quello che si dicevano questi figuri, riuscivamo ad anticiparl­i e a scacciarli». Presto vennero radunati un paio di parrocchia­ni dal fisico robusto che, piazzati sul portone e sugli scalini del Duomo, si assicurass­ero che alle funzioni non si presentass­ero ospiti indesidera­ti. «Ho ricevuto il plauso da tantissimi cittadini – ricorda il prete – e sì, anche qualche insulto, ma l’avevo messo in conto».

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