Venezia, il precedente «Presi un bodyguard I fedeli applaudirono altri dissero: razzista»
VENEZIA Al duomo di Mestre, nel Veneziano, era cominciato con le richiesti «insistenti» di elemosine, si era arrivati ai furti di telefonini tra gli ultimi banchi della chiesa e tutto si era concluso chiamando un paio di parrocchiani ben piazzati a sorvegliare i portoni e la scalinata. Nel mezzo, tanta solidarietà al parroco ma anche qualche «razzista», urlato durante la messa. Nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Trento, invece, dove da mesi spariscono le donazioni e i muri esterni vengono presi per orinatoi, è intervenuto direttamente il presidente della Provincia, il leghista Maurizio Fugatti, le guardie giurate. Problemi e soluzioni simili, facile indovinare anche le stesse polemiche intorno alla decisione. Intanto, però, davanti al duomo di San Lorenzo gli accattoni violenti non ci sono più, merito dei bodyguard voluti dal parrocchia, o forse o dell’auto della polizia locale parcheggiata a una manciata di metri dalla scalinata delle elemosine. All’epoca – era il 2013 – l’idea di un servizio d’ordine era venuta a monsignor Fausto Bonini, allora parroco di San Lorenzo, dopo aver ascoltato voci preoccupanti: «Un prete del territorio, di origine rumena, mi raccontò che a Mestre si stava organizzando una sorta di racket: venivano selezionati in Romania disabili e mutilati, li spedivano qui e li costringevano a chiedere la carità. I soldi venivano poi spediti in patria e usati per finanziare delle costruzioni». Bonini aveva poi visto con i suoi occhi la situazione degenerare: i questuanti aggredivano i parrocchiani, pare che avessero iniziato a suonare anche casa per casa per «riscuotere» le elemosine. In quel periodo il centro di Mestre era tenuto sotto scacco da gruppi di senzatetto che, accampati sotto i cavalcavia o negli stabili abbandonati, durante il giorno si spostavano tra la terraferma e la laguna per chiedere la carità; i giornali li avevano battezzati «barbanera» e presto divennero lo spauracchio cittadino. «Donare soldi a quelle persone non era un atto di carità, avevo paura che i parrocchiani, in buona fede, alimentassero questo meccanismo», continua don Fausto. Il vaso traboccò quando iniziarono i furti: «Durante la messa, nelle ultime file, iniziarono a sparire i cellulari. Allora decisi di agire: grazie ad un fedele rumeno, che capiva quello che si dicevano questi figuri, riuscivamo ad anticiparli e a scacciarli». Presto vennero radunati un paio di parrocchiani dal fisico robusto che, piazzati sul portone e sugli scalini del Duomo, si assicurassero che alle funzioni non si presentassero ospiti indesiderati. «Ho ricevuto il plauso da tantissimi cittadini – ricorda il prete – e sì, anche qualche insulto, ma l’avevo messo in conto».