LA SOCIETÀ PLURALE È SPARITA
C’erano i palloncini colorati e gli ombrelli che oscillavano sopra la folla. Gli slogan di convivenza e tanti hijab perché punteggiano la nostra socialità al pari di altre storie. E poi bandiere dell’Italia, l’arcobaleno della pace, striscioni sui diritti e un melting pot culturale, sociale e generazionale. Era il 6 giugno 2008 e quella manifestazione, che si srotolò lungo le vie del centro storico, è rimasta l’ultima espressione pubblica del progressismo sociale trentino. Avevano sfilato in quattromila sotto la pioggia per pronunciare un «no» determinato al razzismo e un sostegno alla società creola e plurale che è avanzata negli ultimi anni. E ad essa avevano preso parte molti migranti, cittadini di lungo corso, finalmente riconosciuti come elemento essenziale del mosaico sociale comunitario.
In questi dieci anni qualcosa si è interrotto nel comune sentire della collettività. Da allora la piazza ha perso la sua funzione emancipatoria — con l’unica eccezione, se vogliamo, del «Dolomiti Pride» — e ha ospitato al massimo presidi tematici o flash mob che si dissolvono nella testimonianza. Che fine ha fatto quella parte di collettività che premeva per un’unione di orizzonti? È stata inghiottita da quali delle tante paure che aleggiano sul presente?
Due eventi si sono imposti nel dibattito pubblico negli ultimi dieci anni, e forse a questi occorrerebbe guardare per rintracciare una risposta almeno parziale.
Ed entrambe sono espressioni di fenomenologie globali. La prima è la crisi economica che ha fibrillato la realtà locale — nonostante il sostegno e la capacità d’impiego del pubblico — mutando il panorama imprenditoriale e destabilizzando le traiettorie di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Ha sottratto certezze a una platea sociale ampia e trasversale. L’economia rimane la struttura che condiziona e determina diverse variabili del vivere individuale e collettivo. E influenza profondamente le capacità d’accoglienza, la disposizione all’altro e le negoziazioni che avvengono nelle dimensioni pubbliche come negli interstizi della società.
Il secondo fenomeno conduce ai porti di sbarco della nuova immigrazione, un’ondata peculiare rivolta alla richiesta di asilo politico e in fuga attraverso il Mediterraneo dove echeggiano le storie di guerra e di stati disfatti. La loro combinazione, peraltro in una forbice temporale limitata, unita alla crisi mai conclusa della politica — e della sua capacità di produrre coesione — e all’assenza di una cornice culturale e ideale ha stimolato un nuovo riflusso, quasi più figlio dello spaesamento, in cui è dilagata la difesa degli elementi atavici. Tre anni di traversate e di rotte balcaniche hanno cancellato trent’anni di immigrazione, di comunità storiche che hanno trovato una loro collocazione adeguata e patteggiata, di cittadinanze più o meno compiute, producendo un rinculo. È una diffidenza che separa, in alcuni casi, le due stesse esperienze migratorie oltre che la società autoctona.
Recentemente 23 richiedenti asilo pachistani sono stati destinati a Settimo torinese dal governatore Fugatti che fa il suo gioco, cioè azioni simboliche per mostrare che la visione di società ora è cambiata e si identifica con l’insediamento sociale storico. Non c’è stata reazione né tantomeno mobilitazione, un paio di comunicati stampa in tutto. In alcuni segmenti di quella parte di società che dieci anni fa era scesa in piazza è avanzata probabilmente l’idea che doveva essere la sinistra ad anticipare questa lettura. Cioè quella «necropolitica» di cui parla Achille Mbembe, il potere di discernere chi ha il diritto di vivere e chi no.
Il grande scrittore caraibico Édouard Glissant proponeva sul tema dell’identità una distinzione tra il pensiero della radice — «quella che uccide tutto intorno a sé» — e il pensiero rizoma, «la radice che si estende verso l’incontro con altre radici». La nozione di identità come radice unica ha prodotto anche opere straordinarie nell’umanità, ma è legata alle «culture ataviche» e «si conoscono le aberrazioni etniche derivate da questa concezione magnifica e mortale». Non è possibile negare, oggi, il carattere interdipendente e globale delle nostre società. Le culture si muovono e continueranno a farlo a ogni livello sociale. Il pensiero della radice unica non aiuta a capire chi siamo davvero e rischia di imporsi senza nemmeno suscitare un sussulto di coscienza.