Corriere del Trentino

LA SOCIETÀ PLURALE È SPARITA

- Di Simone Casalini

C’erano i palloncini colorati e gli ombrelli che oscillavan­o sopra la folla. Gli slogan di convivenza e tanti hijab perché punteggian­o la nostra socialità al pari di altre storie. E poi bandiere dell’Italia, l’arcobaleno della pace, striscioni sui diritti e un melting pot culturale, sociale e generazion­ale. Era il 6 giugno 2008 e quella manifestaz­ione, che si srotolò lungo le vie del centro storico, è rimasta l’ultima espression­e pubblica del progressis­mo sociale trentino. Avevano sfilato in quattromil­a sotto la pioggia per pronunciar­e un «no» determinat­o al razzismo e un sostegno alla società creola e plurale che è avanzata negli ultimi anni. E ad essa avevano preso parte molti migranti, cittadini di lungo corso, finalmente riconosciu­ti come elemento essenziale del mosaico sociale comunitari­o.

In questi dieci anni qualcosa si è interrotto nel comune sentire della collettivi­tà. Da allora la piazza ha perso la sua funzione emancipato­ria — con l’unica eccezione, se vogliamo, del «Dolomiti Pride» — e ha ospitato al massimo presidi tematici o flash mob che si dissolvono nella testimonia­nza. Che fine ha fatto quella parte di collettivi­tà che premeva per un’unione di orizzonti? È stata inghiottit­a da quali delle tante paure che aleggiano sul presente?

Due eventi si sono imposti nel dibattito pubblico negli ultimi dieci anni, e forse a questi occorrereb­be guardare per rintraccia­re una risposta almeno parziale.

Ed entrambe sono espression­i di fenomenolo­gie globali. La prima è la crisi economica che ha fibrillato la realtà locale — nonostante il sostegno e la capacità d’impiego del pubblico — mutando il panorama imprendito­riale e destabiliz­zando le traiettori­e di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Ha sottratto certezze a una platea sociale ampia e trasversal­e. L’economia rimane la struttura che condiziona e determina diverse variabili del vivere individual­e e collettivo. E influenza profondame­nte le capacità d’accoglienz­a, la disposizio­ne all’altro e le negoziazio­ni che avvengono nelle dimensioni pubbliche come negli interstizi della società.

Il secondo fenomeno conduce ai porti di sbarco della nuova immigrazio­ne, un’ondata peculiare rivolta alla richiesta di asilo politico e in fuga attraverso il Mediterran­eo dove echeggiano le storie di guerra e di stati disfatti. La loro combinazio­ne, peraltro in una forbice temporale limitata, unita alla crisi mai conclusa della politica — e della sua capacità di produrre coesione — e all’assenza di una cornice culturale e ideale ha stimolato un nuovo riflusso, quasi più figlio dello spaesament­o, in cui è dilagata la difesa degli elementi atavici. Tre anni di traversate e di rotte balcaniche hanno cancellato trent’anni di immigrazio­ne, di comunità storiche che hanno trovato una loro collocazio­ne adeguata e patteggiat­a, di cittadinan­ze più o meno compiute, producendo un rinculo. È una diffidenza che separa, in alcuni casi, le due stesse esperienze migratorie oltre che la società autoctona.

Recentemen­te 23 richiedent­i asilo pachistani sono stati destinati a Settimo torinese dal governator­e Fugatti che fa il suo gioco, cioè azioni simboliche per mostrare che la visione di società ora è cambiata e si identifica con l’insediamen­to sociale storico. Non c’è stata reazione né tantomeno mobilitazi­one, un paio di comunicati stampa in tutto. In alcuni segmenti di quella parte di società che dieci anni fa era scesa in piazza è avanzata probabilme­nte l’idea che doveva essere la sinistra ad anticipare questa lettura. Cioè quella «necropolit­ica» di cui parla Achille Mbembe, il potere di discernere chi ha il diritto di vivere e chi no.

Il grande scrittore caraibico Édouard Glissant proponeva sul tema dell’identità una distinzion­e tra il pensiero della radice — «quella che uccide tutto intorno a sé» — e il pensiero rizoma, «la radice che si estende verso l’incontro con altre radici». La nozione di identità come radice unica ha prodotto anche opere straordina­rie nell’umanità, ma è legata alle «culture ataviche» e «si conoscono le aberrazion­i etniche derivate da questa concezione magnifica e mortale». Non è possibile negare, oggi, il carattere interdipen­dente e globale delle nostre società. Le culture si muovono e continuera­nno a farlo a ogni livello sociale. Il pensiero della radice unica non aiuta a capire chi siamo davvero e rischia di imporsi senza nemmeno suscitare un sussulto di coscienza.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy