Altafini e le origini trentine «Le ho ancora nel sangue»
Mille vite in una vita sola: bambino in Brasile figlio e nipote di emigranti partiti dal Trentino e dal Veneto e quindi uomo legato a filo doppio al Nordest. E poi: meccanico mancato, gioiello del futbol al Palmeiras con il soprannome di Mazola, per la somiglianza fisica con Valentino, capitano del Grande Torino. Diciottenne con la maglia verdeoro della Selecao e campione del mondo nel 1958 a nemmeno vent’anni nella squadra con Zagallo, Garrincha, Didì, Vavà e Pelè. Poi centravanti acquistato dal Milan alla cifra record di 135 milioni di lire, uomo simbolo della prima Coppa dei Campioni vinta da una squadra italiana (il Milan) nel 1963, asso del Napoli in coppia con el cabezon Omar Sivori e, infine, vecchio leone capace di tante zampate nella Juventus, fino a 38 anni.
E ancora: autore di libri sul calcio, commentatore tv (marchi di fabbrica il «golasso» e «incredibile amisci»), voce della PES dal 2009 al 2011, doppiatore del bulldog Luiz nel cartoon «Rio», testimonial per campagne pubblicitarie e, ora, collaboratore di un’azienda che realizza campi in erba sintetica. José Joao Altafini, 81 anni portati alla grandissima, è un monumento del calcio mondiale. Ma di tutti i tempi, non di mezzora. Dal 1958 al 1976 ha calcato i campi di serie A e delle Coppe internazionali mettendo a segno un gol ogni due allacciate di scarpini, di media: i numeri sono quelli, alla fine, 598 partite e 295 gol con il Milan, il Napoli e la Juve. Potente ma tecnico, veloce ma solido, capace di colpire da lontano, di tocco, di forza o di testa. Non era uno che amava mettere il piede nei tackle: Gipo Viani lo bollò con il poco generoso soprannome di «coniglio» («tasi, no ti vedi che xe un campion» ringhiava Nereo Rocco) ma quando serviva, e serviva spesso, il pallone finiva in fondo alla rete. Allegro, dalla risata contagiosa, innamorato della vita e del calcio, per nulla affetto dal complesso del fenomeno del pallone che affligge fin troppi e capace di sentirsi allo stesso tempo brasiliano e italiano, cittadino del mondo e radicato nella realtà del mondo piccolo di Alessandria, dove vive. Alessandria, nome che evoca tempi di quadrilateri dove gli altri angoli erano Novara, Casale e Vercelli. Calcio brumoso, fatto di palloni cuciti a mano, terreni fangosi e maglie grigie in lana che pizzica. Ma anche culla calcistica di Gianni Rivera, il più forte in Italia con cui Altafini dica di aver giocato.
Altafini: brasiliano, italiano, origini che affondano in Trentino e nel Polesine: cocktail dalle mille misture...
«Mia nonna e mia madre Maria erano di Caldonazzo, nel Trentino. La famiglia di mio padre, invece, era di Giacciano con Baruchella, in provincia
La finale di Wembley
Il ricordo più bello? Forse proprio la doppietta nella Coppa dei Campioni 1963, contro il Benfica di Eusebio: quel Milan di Rocco fu la prima squadra italiana ad alzare al cielo il trofeo
di Rovigo e sono arrivati in Brasile con l’emigrazione di quegli anni». Le è mai capitato, in questi anni, di tornare nei suoi luoghi d’origine?
«Certo, anni fa l’amministrazione comunale mi invitò a Caldonazzo: mi hanno ricevuto con tutti gli onori, una bella festa, mi ha commosso, alla fine mi hanno anche consegnato le chiavi della città. In Polesine invece non sono mai stato: vorrei andarci ma mi hanno sempre fermato gli impegni e la distanza». Alla fine dei conti si sente più brasiliano o più italiano?
«Alla fine mi sento tanto brasiliano quanto italiano: cinquanta e cinquanta, dai, facciamo un bel pareggio...». Due Mondiali giocati con due Nazionali diverse: nel 1958 in Svezia con il Brasile e quattro anni dopo, in Cile, con l’Italia. Ricordi di quelle esperienze? «Nel 1958 stavo in una Nazionale con Pelè, Didì, Garrincha... Ricordo campioni fenomenali e i due gol segnati all’Austria, l’aver alzato la Coppa Rimet. E come te lo scordi?». E nel ‘62, con la maglia azzurra?
«Io ero già al Milan, la regole allora dicevano che solo chi giocava in Brasile poteva andare in Nazionale. Ho preso la doppia cittadinanza, sono stato convocato con altri oriundi. Ma non è andata bene». Facciamo un passo indietro: la sua famiglia stava a Piracicaba, in anni non facili e nemmeno comodi: hanno favorito la sua grande passione per il calcio? «Mio padre voleva che lavorassi e l’ho fatto, fin da bambino. Poi studiavo alle professionali, per diventare meccanico. Ma volevo fare il calciatore e devo dire che mio padre ha cambiato idea». Le capita di ritornare in Brasile?
«Ogni tanto sì, quando posso ci torno. Lì ho ancora parenti e familiari».
Prima stagione con il Milan e 28 volte a segno: 204 partite e 120 reti in campionato e
due scudetti con i rossoneri. Ma i gol che le resteranno per sempre impressi sono i due segnati a Wembley, contro il Benfica, nella finale di Coppa dei Campioni?
«Due gol importantissimi: stavamo sotto 1-0 dopo il gol di Eusebio e ci hanno consegnato la vittoria su una squadra fortissima. E poi è stato il primio trionfo di una squadra italiana nella Coppa dei Campioni». Flash di quella serata a Wembley?
«Eh, il primo gol in area, di tocco. E il secondo, lanciato da Rivera, con il portiere che respinge il tiro, io che la riprendo e la ribadisco in porta. Un trionfo, che emozione». È il ricordo più che bello che porta dentro, nella sua carriera?
«Forse sì, ogni tanto fanno ancora rivedere quelle immagini, in televisione».
E Rocco? Un altro uomo del Nordest in quel Milan campione d’Europa.
«Un grande allenatore e un grande uomo. Ci andavo proprio d’accordo ma un rapporto speciale con lui ce l’avevano un po’ tutti. Nessun altro sapeva creare un’atmosfera così all’interno di una squadra, in spogliatoio». Altafini, torniamo in Brasile per un attimo: il 6 marzo 1958, segnando due reti al Santos di
Pelè, lei è uno dei protagonisti della storica partita Santos-Palmeiras 7-6 nel Torneo RioSan Paolo. La partita più avvincente che lei abbia giocato?
«Penso proprio di sì, anzi, sì. Eravamo sotto 5-2, siamo passati noi in vantaggio 6-5 e alla fine abbiamo perso 7-6. Viene considerata ancora la partita più bella mai giocata in un campionato brasiliano».
Al Napoli con Sivori ha formato una coppia di assi che i tifosi ricordano ancora adesso: più forte Sivori o Altafini?
«Ah, non sono io a doverlo dire... Di sicuro Sivori è stato uno dei grandissimi, uno dei più grandi con cui abbia giocato». Il più forte in assoluto?
«Pelé: lui ha segnato più di mille gol e aveva davvero tutte le qualità. Destro, sinistro, velocità, tecnica, colpo di testa». E in Italia?
«Rivera, non ho dubbi»
Venendo all’eterno dualismo contemporaneo: meglio Messi o Cristiano Ronaldo?
«Messi. Ronaldo è fortissimo ma quanto a estro e fantasia Messi non ha paragoni»
Altafini, cosa fa adesso nella vita?
«Collaboro con un’azienda che realizza campi da calcio in erba sintetica, è una bella attività, il futuro di questo gioco. E grazie a Dio l’energia non mi manca»