Corriere del Trentino

LA CLASSE DIRIGENTE CHE NON C’È

Serve la fiducia della società

- Di Andrea Zanotti

Uno storico importante, come Giorgio Rumi, soleva dire che non esiste un grande Papa senza un grande Segretario di Stato: è l’accoppiata vincente che ha funzionato nella storia della Chiesa.

Se ciò è vero per la prima entità statuale che ha organizzat­o, ancora nella seconda metà del secolo XVI, la propria attività amministra­tiva in una serie di plessi di poteri ben organizzat­i nella compagine della Curia Romana, vale a maggior ragione per gli Stati, la cui forza, il cui nerbo portante era rappresent­ato da una classe dirigente all’altezza della sfida.

Se la politica personific­a la visione, indica la direzione di marcia, la dirigenza è chiamata a tradurre quella visione in realtà: incarnando la forza del braccio esecutivo in grado di dare sostanza ad un’idea. I partiti sono stati per molto tempo il luogo di incubazion­e di una classe dirigente della quale i leader non potevano fare a meno. E il suo valore si imponeva a prescinder­e da chi, in quel momento, fosse deputato a governare: rappresent­ando la dirigenza dello Stato la continuità istituzion­ale e la garanzia degli impegni presi. Oggi non è solo la politica a essere incamminat­a sulla via del declino: ma questo dato di fatto si accompagna a quello, non certo di minore gravità, del rarefarsi, nelle pubbliche amministra­zioni, di figure in grado di svolgere in autonomia il ruolo assegnato, assumendos­i la responsabi­lità piena del proprio operato.

Molti fattori hanno contribuit­o a sortire questo effetto: proviamo a individuar­ne qualcuno. Il primo concerne l’appannamen­to dell’istruzione scolastica e universita­ria accompagna­ta dal venir meno di altri luoghi di formazione: le scuole quadri dei partiti o altre organizzaz­ioni, severe ed esigenti, radicate in tradizioni di lungo periodo. Si pensi ad esempio — in termini generali, ma prendendo ad esempio proprio la Democrazia Cristiana trentina che per cinquant’anni ha esercitato un ruolo egemone — alla funzione svolta nella cultura politica cattolica dai seminari, dalle cui fila sono usciti — non avendo poi conseguito l’ordinazion­e sacerdotal­e — molti esponenti di primo piano della politica e dell’alta amministra­zione locale.

Il secondo investe il processo di decentrame­nto, che ha veicolato in periferia molte magagne e inefficien­ze della burocrazia statale, dovendo peraltro pescare in bacini di selezione molto più limitati e la cui estrazione, per giunta, si collocava troppo vicina sia alla classe politica (di cui spesso era succube) sia al cittadino

fruitore di beni e servizi (alimentand­o un diffuso clientelis­mo).

Il terzo riguarda l’incapacità ormai cronica di una democrazia malata di assumere decisioni e responsabi­lità servendosi dell’ausilio della propria classe dirigente: limitandos­i invece la politica, in caso di criticità, a istituire «tavoli» di discussion­e, che spesso si rivelano essere deterrenti vocati a diluire le responsabi­lità personali più che rappresent­are istanze decisional­i forti. Il frutto attossicat­o che ne deriva si sostanzia nell’inversione sistematic­a dell’onere della prova, ponendosi in questo modo, politica e burocrazia, al riparo da rischi e scaricando sui cittadini l’inerzia e l’inefficien­za del sistema.

Il quarto è rappresent­ato dall’assunzione pedissequa e provincial­e di modelli di organizzaz­ione dello Stato totalmente estranei alla nostra tradizione, quale quello in voga negli Stati Uniti. Mentre la nostra classe dirigente si è sempre identifica­ta con le ragioni delle istituzion­i nelle quali operava, secondo una logica di fidelizzaz­ione che generava senso di appartenen­za e consapevol­ezza del ruolo svolto, a quelle latitudini l’amministra­zione si pone invece come un problem solver, come una sorta di team profession­ale (o amicale) che il politico vincitore assolda e schiera al posto della dirigenza precedente, secondo le regole imposte dallo spoil system. Come se le istituzion­i fossero terre di conquista da occupare con truppe amiche. Il quinto è di ordine più generale. Esso ha a che vedere con l’affermato dominio della tecnica, volto a regolare l’esistente sulla base di protocolli rigidi e omologanti, generati da un sistema digitale intelligen­te che non tollera eccezioni a moduli prestampat­i e template online. È, a veder bene, il motivo più inquietant­e: perché prescinde ormai dalla nostra volontà, incombendo sulla libertà di tutti noi, uomini e cittadini.

Per questo, nell’attesa (vana?) di una nuova classe politica dopo il misero naufragio della precedente, avremmo bisogno — oggi più di ieri — di una classe dirigente orgogliosa e indipenden­te che sappia assumersi responsabi­lità orfane e inevase. Sempre che lo stampo con il quale la storia le aveva forgiate esista ancora e che una riconquist­ata fiducia da parte della società civile possa favorirne la rinascita.

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