LA CLASSE DIRIGENTE CHE NON C’È
Serve la fiducia della società
Uno storico importante, come Giorgio Rumi, soleva dire che non esiste un grande Papa senza un grande Segretario di Stato: è l’accoppiata vincente che ha funzionato nella storia della Chiesa.
Se ciò è vero per la prima entità statuale che ha organizzato, ancora nella seconda metà del secolo XVI, la propria attività amministrativa in una serie di plessi di poteri ben organizzati nella compagine della Curia Romana, vale a maggior ragione per gli Stati, la cui forza, il cui nerbo portante era rappresentato da una classe dirigente all’altezza della sfida.
Se la politica personifica la visione, indica la direzione di marcia, la dirigenza è chiamata a tradurre quella visione in realtà: incarnando la forza del braccio esecutivo in grado di dare sostanza ad un’idea. I partiti sono stati per molto tempo il luogo di incubazione di una classe dirigente della quale i leader non potevano fare a meno. E il suo valore si imponeva a prescindere da chi, in quel momento, fosse deputato a governare: rappresentando la dirigenza dello Stato la continuità istituzionale e la garanzia degli impegni presi. Oggi non è solo la politica a essere incamminata sulla via del declino: ma questo dato di fatto si accompagna a quello, non certo di minore gravità, del rarefarsi, nelle pubbliche amministrazioni, di figure in grado di svolgere in autonomia il ruolo assegnato, assumendosi la responsabilità piena del proprio operato.
Molti fattori hanno contribuito a sortire questo effetto: proviamo a individuarne qualcuno. Il primo concerne l’appannamento dell’istruzione scolastica e universitaria accompagnata dal venir meno di altri luoghi di formazione: le scuole quadri dei partiti o altre organizzazioni, severe ed esigenti, radicate in tradizioni di lungo periodo. Si pensi ad esempio — in termini generali, ma prendendo ad esempio proprio la Democrazia Cristiana trentina che per cinquant’anni ha esercitato un ruolo egemone — alla funzione svolta nella cultura politica cattolica dai seminari, dalle cui fila sono usciti — non avendo poi conseguito l’ordinazione sacerdotale — molti esponenti di primo piano della politica e dell’alta amministrazione locale.
Il secondo investe il processo di decentramento, che ha veicolato in periferia molte magagne e inefficienze della burocrazia statale, dovendo peraltro pescare in bacini di selezione molto più limitati e la cui estrazione, per giunta, si collocava troppo vicina sia alla classe politica (di cui spesso era succube) sia al cittadino
fruitore di beni e servizi (alimentando un diffuso clientelismo).
Il terzo riguarda l’incapacità ormai cronica di una democrazia malata di assumere decisioni e responsabilità servendosi dell’ausilio della propria classe dirigente: limitandosi invece la politica, in caso di criticità, a istituire «tavoli» di discussione, che spesso si rivelano essere deterrenti vocati a diluire le responsabilità personali più che rappresentare istanze decisionali forti. Il frutto attossicato che ne deriva si sostanzia nell’inversione sistematica dell’onere della prova, ponendosi in questo modo, politica e burocrazia, al riparo da rischi e scaricando sui cittadini l’inerzia e l’inefficienza del sistema.
Il quarto è rappresentato dall’assunzione pedissequa e provinciale di modelli di organizzazione dello Stato totalmente estranei alla nostra tradizione, quale quello in voga negli Stati Uniti. Mentre la nostra classe dirigente si è sempre identificata con le ragioni delle istituzioni nelle quali operava, secondo una logica di fidelizzazione che generava senso di appartenenza e consapevolezza del ruolo svolto, a quelle latitudini l’amministrazione si pone invece come un problem solver, come una sorta di team professionale (o amicale) che il politico vincitore assolda e schiera al posto della dirigenza precedente, secondo le regole imposte dallo spoil system. Come se le istituzioni fossero terre di conquista da occupare con truppe amiche. Il quinto è di ordine più generale. Esso ha a che vedere con l’affermato dominio della tecnica, volto a regolare l’esistente sulla base di protocolli rigidi e omologanti, generati da un sistema digitale intelligente che non tollera eccezioni a moduli prestampati e template online. È, a veder bene, il motivo più inquietante: perché prescinde ormai dalla nostra volontà, incombendo sulla libertà di tutti noi, uomini e cittadini.
Per questo, nell’attesa (vana?) di una nuova classe politica dopo il misero naufragio della precedente, avremmo bisogno — oggi più di ieri — di una classe dirigente orgogliosa e indipendente che sappia assumersi responsabilità orfane e inevase. Sempre che lo stampo con il quale la storia le aveva forgiate esista ancora e che una riconquistata fiducia da parte della società civile possa favorirne la rinascita.