L’Italia di Velasco, generazione di fenomeni «Sdoganammo il volley»
Tofoli: «Più praticanti grazie a noi». Bernardi: Julio mi cambiò
A coniare l’espressione entrata nella storia della pallavolo di casa nostra, rifacendosi alla celebre canzone degli Stadio, fu il giornalista della Rai Jacopo Volpi dopo la vittoria del secondo Mondiale nel 1994. Ma alla «Generazione di fenomeni», quella che si formò attorno a Julio Velasco a partire dal 1989 e fino al 1998 dominò il tetto del mondo del volley, quella definizione non è mai piaciuta. «Fenomeno non vuol dire solo talento — tiene a precisare Andrea Zorzi, che fu titolare nel primo sestetto, quello che portò all’oro mondiale — ma anche impegno e tanto lavoro».
L’opposto veneto, protagonista sul campo dell’intera parabola della «Generazione di fenomeni», ieri sera era sul palco del teatro Sociale insieme ai compagni di un tempo in qualità di mattatore. Accanto a lui Lorenzo Bernardi, «mister Secolo», il miglior giocatore dei primi cento anni della pallavolo internazionale, Marco Martinelli, che ha giocato sia centrale che bomber nella nazionale di Velasco, convocato praticamente subito nell’Italia che poi sarebbe diventata campione d’Europa per la prima volta nel 1989, Michele Pasinato, arrivato in azzurro come vice Zorzi, diventato titolare in occasione dell’Europeo di Finlandia quando gli azzurri tornano all’oro, Paolo Tofoli, lo storico regista della prima nazionale di Velasco, Roberto Masciarelli, il primo fra tutti ad aver incontrato l’allenatore argentino: «Era un sergente di ferro — ricorda — noi eravamo una piccola squadra di A2 di Jesi e al termine del campionato, quando lui stava andando a Modena e io dovevo scegliere in quale club di A1 militare, ricordo di avergli chiesto consiglio e lui mi rispose: “Devi pensare alla nazionale”. Così, quando nel 1989 mi convocò, gli dissi che l’aveva fatto solo per avere ragione».
Che cosa portò di nuovo Velasco a quella nazionale lo dice Bernardi: «Al di là delle sue qualità — sostiene “mister Secolo” – una dote che lui ha sempre avuto è la grande capacità di vedere cosa possa ottenere da un singolo giocatore. Quando venni preso da Modena io ero un palleggiatore: alla fine del primo anno, quando presero un nuovo giocatore per il mio ruolo, Vullo, lui mi disse che se ci avessi creduto e avessi cambiato ruolo, in due anni avrei giocato in nazionale». Il resto è storia.
Sullo schermo scorrono le immagini dei trionfi, a cominciare dal primo oro europeo del 1989 conquistato contro l’Olanda, la prima medaglia che ha fatto da preludio ad altri tre ori europei (1993, 1995, 1999), tre titoli mondiali consecutivi (1990, 1994, 1998), otto World League, una coppa del mondo.
Era il 1990 quando l’Italia si innamorò di loro. In finale sconfiggono Cuba, Rai Uno trasmette la partita in prima serata. Scatta la volley mania. «Capitava di guardarsi intorno e dire: “ma chi è il più forte? Chi prende più soldi? Perché va lui in televisione e non io?”. Per me quegli anni sono stati paludosi, il successo iniziava a pesare» ammette Zorzi. «Entrarono sponsor grossi nella pallavolo in quel momento — ricorda invece Tofoli — prima di allora sulla Gazzetta la pallavolo era sempre inserita tra gli “sport vari” e dopo il nostro primo Mondiale il volley ha ricevuto invece una mezza pagina. La gente mi ferma ancora per strada e mi dice di aver iniziato a praticare questo sport sull’onda dei nostri successi».
«I titolari nei tornei che si disputavano in Corea penso non siano mai venuti, eravamo sempre noi riserve — rammenta scherzando Masciarelli — e si doveva vincere comunque, questa è un’altra medaglia che noi riserve ci portiamo addosso. C’erano anche i tornei in Cina, in Giappone. E in quegli anni si viaggiava rigorosamente in economy class. Abbiamo anche fatto riscaldamento in pullman perché c’era l’alluvione, le proteste studentesche a Seoul: ma quando si arrivava bisognava comunque vincere».
Tocca a Bernardi raccontare la delusione olimpica del 1992 (prima di quella devastante, poi, del 1996 sempre con l’Olanda): «Eravamo accreditati come vincitori già prima di iniziare — ricorda — ma è stato l’unico anno in cui ci presentammo con una squadra che non aveva identità». Il tiebreak del quarto di finale li rimandò a casa.