FERMIAMO IL RITORNO DEL VENTO
«Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare». Già a metà Settecento alcuni intellettuali lungimiranti avevano cominciato a rendersi conto della fragilità della natura, che tuttavia nasconde, come conseguenza inattesa, anche una minaccia. Due secoli più tardi i cambiamenti climatici hanno assunto una velocità allora non prevedibile, che misuriamo direttamente dalla temperatura estiva delle giornate scorse e da cambiamenti repentini mai vissuti in una zona temperata e protetta dalla barriera alpina. Il ricordo della violentissima tempesta di un anno fa è ancora vivissimo intorno a noi: basta una passeggiata in un bosco qualsiasi in Trentino Alto Adige, quasi in ogni valle, per avvertire direttamente l’elemento drammatico della distruzione avvenuta. Il bosco, da sempre luogo in cui è possibile vivere la natura in tutti i suoi aspetti, oggi ci turba: il disastro è ancora pienamente visibile, e non certo per mancanza di volontà di rimettere ordine. Ci vorranno decenni e forse di più perché alcuni boschi ritornino com’erano, e forse alcuni non potranno più riprendere l’antico aspetto. Sono stata a pranzo in un ristorante a Pinè lo scorso anno due giorni dopo il disastro; la distruzione su cui si affacciava aveva un aspetto incredibile.
Ci si chiedeva tra l’altro quale rumore potesse aver accompagnato la caduta di alberi secolari sventrati come fuscelli dalle loro radici. La risposta di chi aveva assistito direttamente fu che non c’era stato altro rumore se non quello del vento, che ne aveva coperto qualsiasi altro. Un evento senza precedenti.
Consideriamo spesso la terra come madre feconda e protettiva, anche se in passato le città venivano costruite per difendersi dai suoi pericoli, oltre che da quelli provocati dai nemici umani. La natura e la terra come madre è un’idea molto sentita oggi: cerchiamo di più la sua vicinanza forse proprio perché ce ne siamo tanto allontanati. Spesso chi la vive da sempre e sa amarla, sa anche che bisogna temerla. Se, con la nostra frenetica attività, interferiamo profondamente sui suoi tempi lunghi, provochiamo reazioni gigantesche. La natura è una madre bisognosa e come tale sa essere aggressiva. Come un animale ferito, reagisce con violenza e senza distinzioni. Qualsiasi cosa sul suo cammino viene spazzata via: come se volesse riparare con un danno maggiore quello inferto da attività talvolta inconsapevolmente non rispettose dei suoi tempi geologicamente lenti. Sbagliamo se pensiamo di avere l’ultima parola. La natura sa trasformarsi anche passando attraverso catastrofi, come nell’era dei dinosauri, ritrovando poi un nuovo equilibrio. Il prezzo talvolta è alto, come l’estinzione di alcune specie. In questo caso è la specie umana a essere a rischio per l’eccesso della sua attività incontrollata, che può diventare controproducente per la stessa umanità.
Non penso che la soluzione sia tornare all’età delle caverne e rinunciare alla modernità e alla tecnologia. Gli stessi che lo pensano oggi comunicano ogni giorno con i telefoni cellulari. Gli scienziati ci dicono che molte cose sono rimediabili, se ci impegniamo a dare nuova vita alle cose, a limitare al massimo la logica usa-egetta, e la moltiplicazione di sostanze non riciclabili. Non è semplice e non è immediato, ma molte aziende si stanno convertendo a questa nuova impostazione e i consumatori cominciano a fare lo stesso. Molto ancora resta da fare per evitare che la catastrofe diventi la cifra del nostro futuro. Aspettarsi l’apocalisse significa renderla possibile. Ma temerla ci spinge invece ad agire per sventarla, per evitare, letteralmente, il ritorno del vento che ha raso al suolo molti dei nostri boschi.