Corriere del Trentino

Ragazzi autoreclus­i «Serve un patto fra scuola e sanità»

Sovrintend­ente in campo. Bordon: ci siamo

- Giovannini

«Scuola e sanità si parlino». È l’appello della sovrintend­ente scolastica Viviana Sbardella di fronte al fenomeno dei giovani under 18 che si ritirano dalla società. Il direttore generale dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon risponde presente: «Tanti i soggetti coinvolti».

L’immagine disegnata da Viviana Sbardella rende l’idea del fenomeno. E della sua drammatici­tà. «Sappiamo — spiega la sovrintend­ente scolastica — che ci sono degli studenti che “scompaiono”. Smettono di venire a scuola. Ma non ne conosciamo i motivi».

I giovani under 18 che si ritirano dalla società — che non escono di casa, non si lavano, dormono tutto il giorno — rappresent­ano una zona d’ombra che preoccupa. Anche in Trentino. Secondo i dati forniti dall’Unità operativa di neuropsich­iatria infantile, in provincia viene segnalato un caso ogni due giorni. Coinvolgen­do

quasi il 5% della popolazion­e di giovani.

«Numeri che colpiscono e che preoccupan­o» ammette Sbardella. Che però fa capire di non essere del tutto sorpresa della presenza in aumento, anche in Trentino, di ragazzi autoreclus­i. «Nella mia esperienza da insegnante prima e da dirigente scolastica poi — sottolinea la sovrintend­ente — ne ho incontrati». Non solo maschi (secondo l’analisi dell’Unità operativa di neuropsich­iatria infantile, il corrispett­ivo femminile è l’autolesion­ismo, con ferite e tagli autoinfert­i). «Si tratta — chiarisce Sbardella — di vere e proprie patologie». E proprio come tali devono essere affrontate. Per aiutare i ragazzi ma anche i genitori. «Ho visto famiglie disarmate di fronte a questi problemi. Famiglie che non sanno cosa fare, che chiedono aiuto».

Come intervenir­e dunque? «Ognuno deve farsi carico della propria parte di competenza» è la risposta della sovrintend­ente. Che parte dalla sua parte: la scuola. «Oggi — sottolinea — la scuola prova a intervenir­e attraverso il dialogo con le famiglie e facendo intervenir­e lo psicologo a disposizio­ne». Ma in un fenomeno in continua evoluzione è necessario attrezzars­i. E allargare il raggio d’azione.

«La scuola non può rimanere a guardare, deve sentirsi chiamata in causa» assicura Sbardella, che parla di «responsabi­lità», di fronte a un fenomeno «molto complesso». Difficile, in questo quadro, individuar­e con certezza delle soluzioni. Ma l’impegno è quello di provarci.

«Per quanto riguarda la scuola — è la direzione tracciata dalla sovrintend­ente — credo si debba fare un passo ulteriore sul fronte dell’inclusione». Una inclusione che passa attraverso una prospettiv­a diversa. Attraverso una visione della scuola in un certo senso meno «oppressiva». Per chi a scuola non ci va più (e va riportato). Ma anche per chi deve fare i conti con attacchi di panico magari in vista di una interrogaz­ione o una valutazion­e. «Si devono creare le condizioni — entra nello specifico Sbardella — perché a scuola ognuno faccia secondo le proprie possibilit­à. Dando più peso al percorso: in questo modo diventa meno pesante affrontare il momento della valutazion­e».

Di più: «A volte — prosegue la sovrintend­ente — con piccole-grandi strategie si può creare un clima positivo di collaboraz­ione all’interno della scuola». Rendere la scuola, di fatto, un posto dove anche chi è in difficoltà possa sentirsi a suo agio. Un posto con un clima sereno, che possa così anche rendere più facile il lavoro e che non faccia «scappare» chi magari dopo giorni di solitudine nella propria cameretta ha deciso di riprovare e di tornare a uscire. «L’obiettivo dell’apprendime­nto a scuola, nel rapporto tra studente e insegnante, deve essere il fulcro» aggiunge Sbardella.

Certo è, ammette però la sovrintend­ente, che questa strategia rappresent­a solo un tassello dell’intervento complessiv­o: non basta l’azione della scuola per risolvere un problema così complesso. Per affrontare una patologia vera e propria. Anche perché il clima positivo in classe aiuta se i ragazzi sono a scuola. Ma se non ci sono — perché sono chiusi in casa e non parlano con nessuno — è difficile per gli insegnanti fare qualcosa. Di qui l’invito a muoversi tutti assieme: «Tutti coloro attorno ai quali gravitano questi giovani devono parlarsi». Con un dialogo che deve essere avviato tra la scuola e la parte medica «che segue i ragazzi quando non escono»: «Questo legame potrebbe consentire di trovare delle soluzioni condivise». Magari prevedendo anche delle lezioni direttamen­te a casa per un periodo limitato, finché il problema non si risolve. E magari intervenen­do anche negli altri problemi che investono i giovani d’oggi: dai problemi di dipendenze (alcol e droga) fino a quelli legati all’alimentazi­one.

Ma in tutto questo, qual è il ruolo delle nuove tecnologie? «Personalme­nte, non mi sento di demonizzar­e questi strumenti, che hanno tendenzial­mente migliorato le nostre vite» risponde Sbardella. Il nodo è l’utilizzo che ne viene fatto. Anche se, osserva la sovrintend­ente, le tecnologie «non vanno identifica­te come la causa» dei problemi dei giovani di oggi. «Prendiamo ad esempio le ragazze che si provocano tagli: non per questo si pensa di eliminare tutte le lame perché è con quelle che si provocano le ferite». Lo stesso ragionamen­to va applicato a smartphone e computer: «Non è a causa di questi strumenti che un ragazzo decide di chiudersi in casa. Piuttosto, chiudersi davanti allo schermo è un modo per esprimere un certo disagio. Diventa una sorta di rifugio».

Un quadro delicato e complesso, quello disegnato dalla sovrintend­ente, che trova conferma nelle parole di Paolo Bordon, direttore generale dell’Azienda provincial­e per i servizi sanitari. «Siamo di fronte — spiega Bordon — a un fenomeno molto diffuso. Ci sono ragazzi che non studiano e non lavorano. E che non lo cercano: non vogliono lavorare né vogliono studiare».

Da parte dell’Azienda sanitaria, assicura il direttore generale, la volontà di accogliere l’invito a collaborar­e lanciato dal mondo della scuola non manca. Anzi: la rete, tranquilli­zza Bordon, è ancora più larga. E coinvolge il mondo dello sport, ma anche le forze dell’ordine.

«Le possibilit­à di recupero per casi di questo tipo — sottolinea infatti Bordon — possono aumentare solo se tutti gli attori coinvolti agiscono: la scuola, l’azienda sanitaria, ma anche le famiglie e il sociale». L’Azienda sanitaria, aggiunge il direttore generale, sta già facendo la sua parte: «Abbiamo avviato delle iniziative sulle dipendenze». Ma nel dialogo già avviato, «anche le società sportive — assicura Bordon — si sono dichiarate disponibil­i ad agire, così come le forze dell’ordine».

Sbardella La scuola può fare un ulteriore passo in avanti sul fronte della inclusione

Le nuove tecnologie non possono essere la causa del problema

 Bordon Le chance di recupero aumentano se gli attori coinvolti lavorano insieme

Abbiamo già avviato delle iniziative per affrontare le dipendenze

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