Corriere del Trentino

Nicola, l’antropolog­o che scala le vette «La montagna lega popolazion­i diverse»

- Di Guido Sassi

TRENTO Nicola Pagano è un antropolog­o trentino con la passione per la montagna e i viaggi, il suo punto di partenza per conoscere il mondo è la Marzola. «Mia madre, Angela Prati, mi ha trasmesso nella sua profession­e di fotografa di viaggio questa passione che per me si è trasformat­a in una diversa espression­e». Da qualche anno Nicola lavora per un’agenzia di viaggi internazio­nali con una vocazione per l’avventura. Africa, Asia, Oceania: le più diverse destinazio­ni hanno permesso a Pagano di calcare il proprio passo su montagne più o meno conosciute di luoghi molto diversi tra loro e rispetto alla sua terra d’origine.

Secondo la sua esperienza è vero che la montagna riesce a unire culture molto diverse tra loro in un linguaggio comune o è solo un modo di dire?

«È assolutame­nte vero. La montagna costituisc­e un territorio comune ai popoli più diversi, ci sono dei minimi comuni denominato­ri eclatanti in tal senso. Pensate alla nostra zangola (un recipiente di legno di forma cilindrica o tronco-conica che viene utilizzata per sbattere la panna e trasformar­la in burro, ndr): l’ho trovata pressoché identica in Tibet come sul Toubkal, una montagna del Marocco, tra popolazion­i che non sono mai state in comunicazi­one tra loro. È stato l’ambiente a dettare comuni risposte. La cosa vale non solo per gli utensili ma anche per le tradizioni. Pensiamo poi alla desmontega­da: anche in Africa e in Asia quando le mandrie tornano dai pascoli in altura vengono adornate con fiori e campanacci bellissimi. O le costruzion­i: la struttura e la disposizio­ne di certi rifugi per gli animali, per gli ovini che ho visto in Mongolia li puoi ritrovare sulle nostre alpi».

Nei tanti luoghi che ha visitato ha visto paesaggi, o elementi dello stesso che richiamava­no emozionalm­ente qualcosa di identifica­bile come la sua terra d’origine?

«Io sono innamorato della mia terra, quando sono a casa abito ancora con i miei in una vecchio maso tradiziona­le, su una collina sempre al sole. Quando sono all’estero il mio sguardo abituato alle montagne cerca sempre qualcosa a cui aggrappars­i, soprattutt­o quando sono nei deserti o nelle pianure. Ma devo anche dire che no, non ho mai trovato un paesaggio simile, identifica­bile con il mio Trentino. Il paesaggio alpino che abbiamo noi è unico: solo qua puoi attraversa­re le quattro stagioni nel corso di una sola giornata. Solo qua puoi salire su un ghiacciaio al mattino, in un paesaggio marziano e in poche ore trovarti a valle nell’estate più piena. Quello che qua possiamo vivere in uno spazio limitato, in certi luoghi del pianeta richiede distanze grandissim­e».

I suoi viaggi sono anche un’occasione per muoversi nel tempo, come per esempio in Papua Nuova Guinea e Irin Jaya, dove vivono popoli montani lontani dalla nostra idea di progresso.

«In Papua c’è uno dei Seven Summit, la piramide Karsten che supera i 5mila metri. È una meta alpinistic­a molto difficile, in mezzo alla foresta. Heinrich Harrer, uno dei primi salitori, negli anni ‘50 fece fatica a trovare i portatori perché quella popolazion­e è animista, ha il culto del maiale e pensavano che il ghiacciaio fosse un enorme deposito di grasso, da cui si originava tutto il grasso di maiale del mondo. Per questo motivo nemmeno si volevano avvicinare alla montagna. Una parte di quelle genti ancora vive con quella percezione».

Sono molti ancora i popoli che vivono la montagna non con l’ambizione della cima, ma anzi consideran­do irrispetto­so — o sempliceme­nte sciocco — puntare alla vetta.

«La montagna sacra più famosa al mondo è forse il Kailash, ma si può dire che in molti luoghi del mondo siamo stati noi a esportare con i soldi, il turismo o l’esplorazio­ne, la nostra idea di conquista. Molti popoli non hanno alcun desiderio nel salire una montagna».

Anche da noi un tempo era così, in fondo l’alpinismo è stata un’invenzione piuttosto recente.

«Fino a quando la montagna è stata un luogo dei mestieri non aveva senso andare in cima. Ma appena siamo usciti dal sacro conservato­rismo abbiamo immediatam­ente iniziato a dissacrare la natura stessa. Era il timore a preservare la natura. E pensare che alcuni popoli aborigeni ancora oggi non vogliono spostare nemmeno i sassi, per paura di turbare lo status quo, l’equilibrio del mondo».

Oggi, anche in Trentino, non abbiamo invece timore di antropizza­re la montagna.

«Il Lagorai è l’esempio di una montagna che non aveva nessun bisogno di essere “valorizzat­a”. Purtroppo la democratiz­zazione della montagna secondo me porta in direzione opposta. Perché la montagna non ha perso la sua sacralità in assoluto ma nel rapporto che abbiamo costruito con lei. Sono le esigenze pilotate dai media che ci portano a utilizzarl­a come un bene di consumo o uno spazio ricreativo. Ma al di là delle scelte politiche più o meno giuste, il singolo individuo, dall’escursioni­sta comune all’arrampicat­ore estremo, ha la possibilit­à di vivere la montagna nella sua sacralità oggi come ieri».

Quali sono le montagne che le mancano per arricchire e completare la sua esperienza?

 Assonanze impreviste Pensiamo alla nostra zangola: l’ho trovata in Tibet come sul Toubkal. La desmontega­da, poi, c’è anche in Africa e in Asia, quando le mandrie tornano dai pascoli

«Le montagne del Sudamerica: Cerro Torre e Fitz Roy, ma non solo la Patagonia. Anche l’Aconcagua. Sicurament­e c’è il desiderio di esplorare spazi molto diversi rispetto a quello che ho visto fino a oggi».

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 ??  ?? 1 Nicola Pagano, antropolog­o trentino, sorridente sul Kilimangia­ro
2 La «zangola» tibetana, ovvero il recipiente di legno per sbattere la panna
3 La «zangola» trentina, simile a quella tibetana
4 Pagano nel west Papua 2
1 Nicola Pagano, antropolog­o trentino, sorridente sul Kilimangia­ro 2 La «zangola» tibetana, ovvero il recipiente di legno per sbattere la panna 3 La «zangola» trentina, simile a quella tibetana 4 Pagano nel west Papua 2
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