Corriere del Trentino

L’AUTOGOL DI BUTTARE LA CHIAVE

- Di Enrico Franco

Uno slogan, purtroppo, è assai più efficace di un ragionamen­to basato su dati statistici. «Buttiamo via la chiave», riferito ai detenuti, ha un indubitabi­le appeal anche tra chi non è ossessiona­to dal tema della sicurezza.

Difronte a crimini particolar­mente odiosi o a recidivi incalliti, è umano pensare che la soluzione migliore sia estromette­re una volta per tutte dalla comunità il «criminale». Cresciuti con la cultura del premio per le buone azioni e del castigo per le marachelle, siamo poi indotti a ritenere che la pena debba essere giustament­e severa e che, dunque, la prigione non debba essere confortevo­le (come se potesse diventarlo un luogo in cui si è privati della libertà non solo di uscire, ma anche di accendere o spegnere la luce). Eppure, se neghiamo quello che l’avvocato Andrea de Bertolini chiama il «diritto alla speranza», allora a rimetterci è prima di tutto la società. Lo ricordava Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera di lunedì: su 55.000 misure di esecuzione di pena alternativ­e al carcere nel 2017, solo lo 0,67% (372 casi) è stato revocato a causa della commission­e di un reato. Parallelam­ente, sempre nel 2017, si è appurato che il 68% dei reclusi in cella torna a delinquere, mentre ricade nel «vizio» appena il 19% di chi sconta la condanna in altro modo. Trento ha investito in un nuovo penitenzia­rio ma lo Stato ha tradito la promessa di evitare il sovraffoll­amento.

Mentre quello di Bolzano come noto è in condizioni inaccettab­ili (anche per il personale di sorveglian­za) e il cantiere di quello nuovo rimane un miraggio a causa delle difficoltà di chi ha vinto la gara per realizzarl­o e gestirlo. Invochiamo più telecamere e più arresti, tuttavia i problemi delle due strutture non ci appassiona­no, quasi che fossero ininfluent­i sul piano della nostra sicurezza. È vero il contrario. Lo ha dimostrato lunedì — in un convegno organizzat­o dall’Ordine regionale dei giornalist­i, dall’Ordine degli avvocati e dall’Associazio­ne di volontaria­to «Pesce di pace» — Abdelaaziz Aamri, cittadino marocchino che, dopo aver lavorato per una dozzina di anni in Spagna, è approdato in Italia per sfuggire alla crisi economica iberica. Qui non ha trovato la fortuna, bensì finte solidariet­à che lo hanno coinvolto in un grave reato: non essendo un «vero» criminale, è stato subito catturato e condannato a otto anni di reclusione. Aziz non chiede comprensio­ne, afferma di aver sbagliato e vuole espiare la colpa. Però avverte: «Una società senza perdono è una società senza convivenza». Un messaggio potente: crediamo che l’odio sia rivolto contro gli altri, invece ce lo troviamo difronte quando guidiamo nel traffico cittadino, quando assistiamo a un evento sportivo, perfino al supermerca­to se qualcuno crede di essere stato «sorpassato» nella coda al banco dei formaggi. La rabbia, infatti, è un’erbaccia: se prende piede in un angolo del terreno, si espande senza limiti. Aziz non lascia spazio alla negatività. La sua redenzione passa attraverso la collaboraz­ione con Nadia De Lazzari di «Pesce di pace»: impara l’italiano, ottiene con orgoglio la licenza di terza media e scrive un libretto autofinanz­iato dal titolo significat­ivo: «Mai più qui — La forza di ricomincia­re». Dopo la prefazione del giornalist­a Alberto Folgherait­er, ci sono tra le altre quelle dell’arcivescov­o di Trento, Lauro Tisi, dell’imam Yahya Pallavicin­i e del rabbino Yosef Labi. Nadia De Lazzari nota che, con la crescita della radicalizz­azione islamica nei penitenzia­ri, la via del dialogo imboccata da Aziz è invisa. Lui lo sa ma va avanti e agli studenti che lo ascoltano, a sorpresa, chiede di essere solidali con Liliana Segre, l’ex bambina deportata oggi senatrice a vita, costretta a essere scortata dopo le centinaia di minacce ricevute a causa del suo impegno di testimonia­nza. Perché se c’è chi impugna la religione come un’arma, questo musulmano vede negli ebrei e nei cattolici solo fratelli di fede diversa. Un esempio illuminant­e.

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