«I ghiacciai trentini sono il termometro del cambiamento»
Brunetti: il clima cambia. Giovannini: ora la protezione civile si può preparare
TRENTO Dalla tempesta Vaia all’allagamento di Venezia dei giorni scorsi, tanti sono i fenomeni meteorologici violenti che sempre più spesso colpiscono anche il nostro territorio. Ma perché il clima cambia? E quali conseguenze ci sono? A chiederselo, ieri, durante il Festivalmeteorologia a Rovereto anche il primo ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche Michele Brunetti e il ricercatore dell’Università di Trento Lorenzo Giovannini. Entrambi concordi sulla necessità di un intervento pubblico diffuso e globale per la tutela dell’ambiente, i due hanno spiegato che — anche se non si può stabilire una correlazione diretta tra fenomeni estremi come quelli verificatisi in laguna in questi giorni e il cambiamento climatico perché (per fortuna) manca il requisito della ricorrenza statistica — è innegabile che negli ultimi duecento anni il clima sia cambiato profondamente.
«Dall’Ottocento ad oggi — ha detto Brunetti — la temperatura sul pianeta è cresciuta di circa un grado al secolo, ovvero di un decimo di grado ogni dieci anni. Negli ultimi quarant’anni, invece, l’aumento si è fatto esponenziale, con una crescita di quasi mezzo grado al decennio».
«Per accorgersi di questo cambiamento — ha continuato il ricercatore — non servono nemmeno le banche dati. Basta alzare lo sguardo verso i ghiacciai trentini e confrontare lo scenario che abbiamo di fronte con una fotografia degli anni ottanta». Ma lo scioglimento dei ghiacci non è l’unica conseguenza negativa dell’effetto serra. Più il gradiente termico tra equatore e polo si accentua, infatti, più le perturbazioni si ingoffano e rallentano. Perciò, quando piove, piove più forte e più a lungo. Analogamente, in caso di siccità, ci vorrà più tempo prima che torni l’acqua. Stesse considerazioni per Giovannini, che ha studiato da vicino il caso di Vaia, rilevando notevoli punti in comune con l’alluvione di Trento del 1966.
«Se guardiamo solo ai numeri — ha detto il ricercatore — l’anno scorso è caduta addirittura più pioggia rispetto a quanto avvenuto durante l’alluvione». Vero è, però, che se nel 1966 il fenomeno si concentrò soltanto su di una giornata, gli effetti di Vaia si sono «spalmati» su tre giorni. Diverso anche lo stato dei suoli e delle montagne: ricche di neve cinquant’anni fa e molto secche nel 2018. A ciò si aggiunge un significativo incremento delle opere di difesa da rischio idrogeologico, dalle dighe alla manutenzione degli alvei. Altro fattore fondamentale secondo il ricercatore sono le previsioni meteo, mai perfette, ma sempre più accurate.
«La tecnologia — ha sottolineato — sta facendo passi da gigante e oggi possiamo prevedere l’arrivo di una perturbazione particolarmente violenta già con tre o quattro giorni d’anticipo». Un tempo utile alla protezione civile per organizzarsi, per esempio svuotando i bacini di raccolta per prepararli ad ospitare le precipitazioni in eccesso. Diversa è invece la prevenzione dei danni causati dal vento. L’anno scorso come nel 1966, si sono registrate raffiche fino a 200 chilometri orari. Eppure, con Vaia le foreste hanno sofferto di più che con l’alluvione. Forse a quei tempi vi erano più pascoli e terreni coltivati e gli alberi, rinati dopo i diboscamenti bellici, erano più giovani e piccoli, quindi meno esposti al vento. O forse erano più diversificati. Resta il fatto che — se per salvare le città possono rivelarsi molto utili le previsioni meteo — per salvare i boschi tre o quattro giorni di anticipo non bastano, ma anzi, servono politiche forestali di lungo corso.
"Il ricercatore del Cnr La trasformazione è evidente guardando i ghiacciai trentini di oggi rispetto agli anni Ottanta